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 2025  febbraio 04 Martedì calendario

David Grossman ha scritto una poesia sulla guerra a Gaza



Per un istante le luci tremarono, per un istante

i tunnel ulularono

e il mondo era nero e bianco.


E il mondo era carbone e ghiaccio.

D’improvviso, da chissà dove,

volò un grido,

rabbioso, con una sferzata

acuta, tagliente,

ci svegliò da un sonno agitato.

“Ditemi, siete forse impazziti?

Rinunciare a tutto questo?

Darsi per vinti così

senza lottare veramente?”.

“Lascia stare”, rispondemmo

“lasciaci raccogliere in noi stessi,

piangere i nostri morti,

aspettare che finisca tutto questo

che non può essere descritto a parole,

muti dinanzi al peso del dolore,

all’orrore dei nostri ostaggi.

Lasciaci essere, solo essere,

senza capire senza pensare,

finché la terra saccheggiata calpestata

la terra violentata

non farà più male.


Per un istante le luci tremarono, per un istante

i tunnel ulularono

e il mondo era nero e bianco.

E il mondo era carbone e ghiaccio.

Nel cuore della notte ci alzammo per fuggire,

mia moglie, io e il bambino.

Su una mia spalla era posato il grido,

sull’altra la speranza,

intubata e sedata.

“Quanto si può continuare così”, disse mia moglie sottovoce,

affinché il bambino non sentisse,

affinché non si impaurisse.

“Guarda,

è così che succede

è così quando succede davvero…”.

Vedemmo carovane lunghe, silenziose,

fluire dalle montagne alle valli,

inghiottite dalle navi, e poi dai mari.

“Com’è successo che in un giorno di orrore questa terra

si è fatta troppo esigente, al di là dei nostri mezzi?”

“No, no”, ci schernì un ragazzo su un monopattino,

sfrecciando con una pistola alla cintura.

“No, no. È successo che in un giorno di orrore

in voi si è spento, o forse avete perso,

oppure non l’avete mai avuto,

il desiderio di una terra vostra”.

“E non è che stiamo scappando”

dissi a mia moglie.

“Ci stiamo solo trasferendo, dentro la nostra anima…”

D’un tratto il bambino parlò:

“Forza, genitori, rialzatevi dalla cenere.

La paura e la disperazione vi danno una lezione.

Così parlò nostro figlio, che cresceva e si rafforzava

sotto ai nostri occhi.

“Se non ci rialziamo ora,

non lo faremo mai più.

Oppure ci rialzeremo diversi,

estranei e tremendi,

duri e amari e ostili”.


Per un istante le luci tremarono, per un istante

i tunnel ulularono

e il mondo era nero e bianco.

E il mondo era carbone e ghiaccio.

“Non c’è più tempo,

chi è stato abbandonato - abbandona.

Chi è stato lasciato a se stesso - lascia.

Parlami, padre mio,

infondimi coraggio,

sto invecchiando, padre, sono a terra,

la mia anima è stanca delle guerre. Stanca.

Dammi speranza, dammi un motivo.

Tu taci, padre, lo dico al posto tuo:

È il momento di lottare, uomini, donne.

È il momento di scendere nelle vie, nelle strade.

E c’è per chi lottare, e c’è per cosa,

Perché non riceveremo più un dono simile, dalla vita,

non germoglierà più uno stato per noi

dalle contese.

E c’è per chi lottare.

Ora tutto dipende da voi,

è il momento di rialzarsi, di vivere,

di essere un popolo o di non essere,

di essere uomini o di non essere.

E c’è per chi e c’è per cosa.

Tutto è appeso a un filo”.

(Traduzione di Alessandra Shomroni)




Non trovare le parole è quello che accade alle persone comuni. Quando succede a uno dei più importantiscrittori del mondo, a qualcuno che con le parole per decenni ha non solo raccontato, ma anche plasmato la realtà, è il segno di qualcosa di grave, di qualcosa che si è rotto.Per mesi, David Grossman non ha trovato le parole. Ha smesso di scrivere qualche mese dopo il 7 ottobre 2023. Per un po’, dopo la strage commessa da Hamas quel giorno, aveva provato a spiegare i sentimenti di Israele e le azioni che a questi sentimenti erano seguite.Le sue parole, soprattutto di fronte all’intensificarsi dei bombardamenti su Gaza e all’aumento del numero delle vittime palestinesi, non erano sempre state accolte con favore.Poi semplicemente, ha smesso.Sopraffatto da qualcosa che in Occidente forse non abbiamo capito fino in fondo: il dolore e l’impotenza che dopo il 7 ottobre hanno travolto molti di quelli che per decenni avevano scelto la strada della pace e del dialogo. E dal riacuirsi – dettato dagli eventi di una ferita personale: nel 2006 suo figlio Uri morì nell’ultimo giorno della guerra di Israele contro Libano. «Non saprei cosa dire. Ho bisogno di prendere le distanze», è stato il filo rosso delle scarne conversazioni con lui in questi mesi.Ora che la distanza è stata presa anche fisicamente, con lunghi soggiorni all’estero – Grossman è tornato. Dolorante, ermetico, guardingo: come l’Israele di oggi.Un Paese che non è più lo stesso di due anni fa, che fatica ad allargare lo sguardo e a dare spazio a un dolore che non sia il suo. È diverso Israele ed è diverso Grossman: non ha scritto un racconto, un articolo o un discorso, come tante volte ha fatto in questi anni. Ha scritto una poesia che in patria è diventata un rap e che trovate qui accanto, tradotta in italiano. Sono versi complessi, a volte brutali, che ci obbligano a scavare, a leggere e a rileggere. A mettere da parte la logica ferrea degli articoli giornalistici o dei discorsi con cui per anni, anche dalle colonne diRepubblica, lo scrittore ha attaccato il governo israeliano e criticato la direzione che il suo Paese stava prendendo.Signor Grossman, la prima domanda è scontata: perché una poesia?
«Perché con quello che è successo in Israele e a Gaza, dopo i massacri a cui abbiamo assistito, le parole da sole non bastano: non possono contenere tutto. Per mesi, prima e dopo la strage, abbiamo ripetuto le stesse cose e non siamo arrivati da nessuna parte. Cosa fare? Un altro articolo? Un altro discorso in piazza? Non avrebbe avuto nessun effetto. Così, a un certo punto, mi è venuto di scrivere qualcosa che fosse un mix fra i fatti che avevamo vissuto e la poesia. È stato come se qualcuno mi prendesse la mano,guidandola: una volta partita, la mano è andata da sola. Quello che ne è uscito fuori è quello che leggete. Non so se definirlo un canto, una preghiera, o un mix fra entrambi. Credo che sia qualcosa di adeguato a una situazione estrema come questa: emotivo e non razionale».
Non è un testo facile quello che ha scelto di condividere con noi: vuole provare lei a guidarci nell’interpretazione?
«Come lei dicevo è una canzone, una preghiera, una poesia. Qualche mese fa ho scritto qualcosa su quanto è fragile il processo che porta la vita, quanto è difficile creare un essere vivente: e quanto invece è facile distruggerlo. Ma è ancora lì, nel cassetto. Questa poesia invece ho pensato chepotevo condividerla. Perché è un urlo: e di fronte a una situazione insostenibile come quella che viviamo da più di un anno, gridare è giusto».
Cosa intende quando parla di “situazione insostenibile”?
«Intendo la consapevolezza che da ora in avanti vivremo sempre circondati dall’odio e dalla paura, che l’irrazionalità è più forte dellarazionalità, che dovremmo sempre stare in guardia di fronte una possibile esplosione di violenza, che dovremmo passare il tempo a sperare che non accada di nuovo. Questo vale per entrambi i lati: ed è una cosa che per me è molto difficile ammettere. Ho passato la vita a scrivere e attraverso la scrittura a cercare di capire l’altro: ora ho raggiunto il punto in cui nonce la faccio più. Questa poesia è il mio urlo».
Se guarda davanti a sé, cosa vede oggi?
«Due popoli distrutti dall’odio e dalla violenza».
Il cessate il fuoco in corso non le dà un briciolo di speranza?
«Probabilmente questo cessate il fuoco sarà l’inizio di una soluzione: non perché questo governo in Israele davvero la voglia, ma perché la pressione di Trump sarà insostenibile e il governo dovrà cedere. A Trump non interessano le sfumature, la complessità della regione, le contraddizioni continue delle persone coinvolte in questa crisi. Ha uno sguardo nuovo: quello dell’uomo d’affari che vuole un risultato e lo vuole adesso. Si è messo in testa che l’obiettivo da raggiungere è la pace in Medio Oriente: e intende raggiungerlo. Ho guardato un’intervista che ha dato l’altro giorno a una televisione americana. Il giornalista gli ha chiesto se davvero pensava che Egitto e Giordania avrebbero accettato di prendersi i palestinesi di Gaza. Ha risposto solo “Accetteranno. Accetteranno perché diamo loro un sacco di soldi e ci devono qualcosa in cambio”. È una risposta incredibile, brutale, senza sfumature. Magari questo approccio è quello di cui questi due popoli hanno bisogno: perché mi pare chiaro da soli non possono arrivare a una soluzione».
Ha detto “soluzione” due volte in pochi minuti: forzo di molto il suo pensiero se dico che allora forse non tutto è perduto...
«Non ricordo nella mia vita un tempo in cui l’incertezza è stata così forte. Ma allo stesso tempo non possiamo permetterci di lasciarci prendere dalla disperazione: è per questo che ho scritto. Perché la disperazione non può vincere. Forse, con il ritorno degli ostaggi e con la ricostruzione di Gaza potrà tornare un velo di normalità»
.Come? Qual è la strada?
«Credo che un passo avanti importante potrebbe segnarlo un accordo fra Israele e l’Arabia Saudita: non arriveremo a una pace hollywoodiana, non saremo amici, ma insieme saremo più forti. Forse potremmo raggiungere un’intesa basata sul fatto che entrambi siamo terrorizzati da quello che possono fare l’Iran e i suoi alleati nella regione».
L’Arabia Saudita non potrà mai accettare un accordo con Israele senza un accordo sullo Stato di Palestina. Torniamo al punto di partenza: due popoli, il sogno di due Stati, la necessità di un accordo. Ma da nessuna delle due parti oggi la volontà di trovare un accordo è forte...
«La sua è un’osservazione realistica. Ma questo è il tempo delle cose imprevedibili, non del realismo».