Corriere della Sera, 4 febbraio 2025
Le verità di Porzûs
Il 7 febbraio del 1945 un gruppo di militanti comunisti (italiani e jugoslavi) uccise alle Malghe di Porzûs diciotto partigiani, cattolici e azionisti, delle Brigate Osoppo (compreso Erasmo Sparacino la cui morte fu accertata in tempi successivi ed attribuita, erroneamente, ai tedeschi). Tra essi il comandante Francesco De Gregori. E il fratello di Pier Paolo Pasolini, Guido, al quale sono stati dedicati due interessanti libri: L’altro Pasolini. Guido, Pier Paolo, Porzûs e i turchi di Andrea Zannini (Marsilio) e I Pasolini. Guido e Pier Paolo. Resistenza e libertà di Roberto Volpetti (Gaspari). Responsabile dell’eccidio Mario Toffanin, nome di battaglia «Giacca». Gli uccisori accusavano gli uccisi di collusione con fascisti e nazisti. Collusione di cui, però, non s’è trovata traccia. In realtà gli uomini di Giacca eseguivano un ordine del futuro leader della Jugoslavia, Josip Broz Tito, per il quale avrebbero dovuto occupare il più possibile della Venezia Giulia nonché della Benecia affinché queste aree geografiche di frontiera potessero essere subito annesse alla «patria socialista» che aveva come capitale Belgrado. A tal fine, era per loro quasi un dovere quello di far fuori chiunque si opponesse a questo disegno.
Dunque, ad essere uccisi furono in diciotto. Il primo a morire fu Giovanni Comin, detto «Tigre». A sparare, secondo la testimonianza di Gaetano Valente, furono Renato Peressan («Tuttu») e Tullio Di Gaspero («Osso»), due dei partigiani della Natisone. Comin, come il fratello di Pasolini, aveva diciannove anni e fino a pochissimo tempo prima aveva militato in una formazione garibaldina. Gli capitò in sorte di essere ammazzato proprio da due partigiani garibaldini. Poi toccò a tutti gli altri. Nella relazione al Pci di Udine, gli uccisori scrissero che al momento della fucilazione De Gregori avrebbe gridato: «Viva il fascismo internazionale!». Una evidente bugia.
Per decenni l’eccidio fu trattato dagli studiosi con una certa disattenzione e venne raramente menzionato dai manuali nella parte dedicata alla Resistenza. Se ne occupò meritoriamente nel 1975 Marco Cesselli in Porzûs. Due volti della resistenza (La Pietra). Poi più niente. O quasi. Negli anni Novanta del secolo scorso, l’affaire tornò prepotentemente alla luce con ammissioni, teorie complottiste, rivelazioni. Finché nel 2012, l’allora presidente della Repubblica, l’ex comunista Giorgio Napolitano, si recò a Porzûs e pronunciò parole sull’intera vicenda che rappresentarono una pietra miliare. Sua intenzione era di rendere omaggio alle vittime e per questo denunciò in modo assai netto quella che, a suo avviso, era da considerarsi una «macchia sulla storia della Resistenza». Bandita ogni reticenza, Napolitano aggiunse che «le ragioni, quelle palesi e quelle occulte, per le quali dei partigiani garibaldini, membri di una formazione legata al Partito comunista italiano, uccisero altri partigiani della formazione Osoppo» potevano apparire nel 2012 «incomprensibili», tanto erano lontane «l’asprezza e la ferocia degli scontri di quegli anni e la durezza di visioni ideologiche totalitarie». Ma, nonostante ciò, ritenne giusto (e, forse, doveroso) dire chiaramente quel che pensava.
Quelle espressioni di un capo dello Stato hanno ispirato già nel titolo lo straordinario libro di Tommaso Piffer (arricchito da una documentazione fin qui inedita) Sangue sulla Resistenza. Storia dell’eccidio di Porzûs che la Mondadori si accinge a mandare in libreria. Secondo Piffer nelle malghe di Porzûs si sovrapposero idealmente le tre grandi fratture che hanno segnato la storia di quegli anni. La prima, quella tra fascismo e antifascismo che vedeva le formazioni osovane, quelle garibaldine e quelle slovene schierate su uno stesso fronte contro l’occupante tedesco e i militi della Repubblica sociale italiana. La seconda, quella nazionale tra italiani e sloveni per il controllo dello stesso territorio. La terza, quella ideologica tra forze comuniste e forze anticomuniste. La sovrapposizione di queste fratture ha reso in un certo senso le malghe di Porzûs «uno straordinario crocevia di tutta la storia del Novecento europeo».
Già nell’estate del 1944, ricostruisce Piffer, il Partito comunista sloveno valutò che per raggiungere i propri obiettivi era necessario imporre, prima della fine della guerra, un diffuso controllo su tutto il territorio conteso. Costringendo tutte le formazioni italiane che operavano nell’area a passare alle proprie dipendenze. Ed «eliminando, con una forma di epurazione preventiva, tutti coloro che avrebbero potuto opporsi al potere popolare». Cioè, il loro. Nel settembre di quello stesso anno uno dei più stretti collaboratori di Tito, Edvard Kardelj, chiese esplicitamente al Pci di «epurare le unità italiane da tutti gli elementi imperialisti e fascisti». Facendo presente al partito di Palmiro Togliatti che il movimento partigiano sloveno non avrebbe tollerato su quel territorio di confine «l’esistenza di nessuna unità nella quale la parola democrazia» fosse «una maschera per coprire lo spirito fascista imperialistico italiano». Il senso di quelle espressioni era chiaro.
Ne fece le spese il fratello di Pasolini, Guido (nome di battaglia «Ermes»), che il 10 dicembre ’44, mentre era in missione, si imbatté in due partigiani italiani che militavano in una formazione slovena. Fu quel giorno che molto probabilmente firmò la sua condanna a morte. Pasolini ebbe una conversazione con i due compagni che, sono parole sue, «con ironia» gli davano del «badogliano». Altro che ironia. Lui diciannovenne batté e ribatté sul proprio «punto di vista democratico». Di più: sostenne che essendo i suoi interlocutori «nati ed educati in Italia» non avrebbero dovuto «combattere nelle file dei partigiani sloveni ma in quelle italiane». Anche perché a suo avviso i garibaldini non combattevano per la «vera libertà». I veri italiani, disse «sono quelli che portano il tricolore e non la stella rossa». Un paio d’ore dopo, i due tornarono con una nutrita pattuglia sloveno-garibaldina e lo invitarono a seguirli al comando dove erano presenti due dirigenti del Pci, Mario Fantini e Gino Lizzero. Stavolta sostenne «una conversazione che poi diventò un vero e proprio interrogatorio». Improvvisamente uno dei presenti gli spianò la rivoltella intimandogli di non muoversi «mentre altri due – raccontò – mi prendevano l’arma». Fu perquisito e gli dissero che doveva considerarsi «prigioniero». Gli presentarono poi «una piccola relazione alquanto imprecisa e alterata… sul colloquio avuto in mattinata». Pasolini sostenne che si dovevano combattere i fascisti e non il fascismo il quale «aveva una sua teoria, il corporativismo, che in certi punti è buona, in altri è condannabile». E «che bisogna combattere ciò che è stato praticato dai fascisti e non la teoria che ha qualche cosa di buono». Poi tornò ad insistere sul fatto che «la libertà nel senso più lato della parola non può trovare una soluzione completa secondo il punto di vista dei comunisti». Tanto bastò a renderlo sospetto, nonostante fosse uno dei partigiani tra i più coraggiosi, di essere un criptofascista.
L’eccidio di Porzûs fu una diretta conseguenze di quel che aveva annunciato Kardelj. Anche l’interrogatorio di Pasolini fu usato come prova a carico degli uomini da uccidere. Dopodiché, il tentativo di imporre nei fatti l’annessione alla Jugoslavia non poté essere realizzato interamente solo perché, nell’estate del 1945, furono gli Alleati occidentali d’accordo con l’Unione sovietica (che però non avvertì compiutamente i compagni italiani) a costringere Tito al passo indietro. Lo costrinsero a ritirarsi dalla Benecia e successivamente da Trieste. Ma nell’autunno inverno 1944-45 l’esito di questo dissidio era tutt’altro che scontato e sia le formazioni osovane sia quelle garibaldine dovettero fare i conti con la presa di posizione slovena.
A proporre la versione più accreditata dell’eccidio è stato per lungo tempo Giovanni Padoan, commissario politico della divisione Garibaldi Natisone. Inizialmente sostenne la posizione ufficiale del Pci secondo cui la strage era stata frutto di un’iniziativa personale di Toffanin. Padoan, dopo essere stato assolto in un primo processo, fu condannato a trent’anni di reclusione come mandante degli uccisori dalla Corte d’appello di Firenze. A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, ricostruisce Piffer, «Padoan iniziò a puntare il dito contro il segretario della federazione del Pci di Udine, Ostelio Modesti, come lui condannato tra i mandanti». Secondo Padoan, all’inizio del 1945 Modesti avrebbe deciso di svolgere un’inchiesta su «non meglio precisate compromissioni dell’Osoppo con i nazifascisti». Ma aveva compiuto l’errore di «affidare l’incarico ad un sanguinario come Toffanin». Il quale, «interpretando a modo suo gli ordini ricevuti, avrebbe compiuto la strage».
Vent’anni dopo, Padoan – in Porzûs. Strumentalizzazione e realtà storica (Edizioni della Laguna) – cambiò ancora una volta versione. Prima suggerendo «l’ipotesi che Toffanin avesse ricevuto un “doppio ordine” (ossia di Modesti e del IX corpo sloveno)» e poi accusando gli uomini di Tito di aver compiuto la strage. Quest’ultima versione divenne per così dire «ufficiale», comunemente accettata «sia dagli storici sia da gran parte dell’opinione pubblica». Anche perché portava acqua al mulino di tutti i contrapposti schieramenti politici che ancora «si contendevano la memoria dell’eccidio». In che senso?
Per gli eredi del Pci e dell’Anpi, spiega Piffer, «scaricare la responsabilità sul movimento di liberazione jugoslavo» garantiva la netta separazione della storia dell’eccidio da quella del Partito comunista italiano. Per i discendenti della Democrazia cristiana e per l’Associazione Osoppo, che nel dopoguerra aveva raccolto gran parte dei partigiani osovani, attribuire ogni responsabilità agli sloveni «permetteva di dare un chiaro significato alla morte dei partigiani caduti a Porzûs, che sarebbero stati uccisi per aver difeso il confine dalle pretese annessionistiche jugoslave». È quel che si evince da due eccellenti libri: Porzûs e la Resistenza patriottica di Matte o Forte (Luni) e Porzûs . La Resistenza lacerata di Daiana Franceschini (Irsml). A cui va aggiunto quello assai particolare di Gianni Cisotto L’eccidio di Porzûs. Le testimonianze dei partigiani azionisti al processo di Lucca (Biblion edizioni).
Ma due verbali pubblicati in appendice al libro di Piffer mostrano che la strage fu decisa dal comando della Natisone durante una riunione con gli sloveni che si tenne fra fine novembre e inizio dicembre 1944 laddove i Gap erano stati messi alle dipendenze della Natisone. I Gap non erano indipendenti dalla Natisone. Un documento dell’archivio dell’Anpi di Udine mostra che dall’ottobre del ’44 i Gap erano stati di fatto messi alle dipendenze della divisione garibaldina. Che, dovendo scegliere tra Italia e Jugoslavia, dapprima cercò di prendere tempo, poi con l’autorizzazione di Pietro Secchia e Aldo Lampredi optò per Tito. Anche se, ammette Piffer, è difficile «dire fino a che punto Secchia si rendesse conto che, nell’area dove la resistenza italiana e quella slovena si sovrapponevano, favorire l’occupazione della zona contesa da parte dell’Esercito di liberazione jugoslavo e mantenere l’unità dell’antifascismo italiano erano due esigenze tra loro incompatibili». Per il IX corpo «le formazioni partigiane italiane che non accettavano le pretese annessionistiche slovene erano formazioni nemiche e la Natisone doveva scegliere da che parte stare».
Piffer ha l’onestà di scrivere che la sua ricostruzione dell’eccidio di Porzûs non ha la pretesa di essere «definitiva» e che «nessuno forse potrà mai scriverne» una che possa definirsi come tale. Tanti dettagli di questa vicenda, ammette, «restano ancora oscuri». E «alcuni lo rimarranno per sempre». Nulla esclude che in futuro vengano fuori nuovi documenti che ci aiutino a «capire meglio la strage e il contesto in cui essa maturò». Oppure che affiorino in qualche modo le memorie dei molti che, seppur coinvolti in prima persona, nel dopoguerra hanno mantenuto un rigoroso silenzio su ciò che avevano visto. Ma il saggio di Piffer contiene documenti fin qui inediti che ci consentono di compiere un ulteriore importantissimo passo per la comprensione dell’accaduto.