il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2025
I colonialisti di smartphone e pc finanziano le mattanze in Congo
Abbiamo tutti dei minerali macchiati di sangue in tasca e siamo tutti complici indiretti di crimini abominevoli commessi in nome del regno del digitale. È la tesi che il sociologo Fabien Lebrun difende nel suo saggio Barbarie numérique, une autre histoire du monde connecté (pubblicato da L’Échappée, 2024), in cui rivisita la “rivoluzione digitale” alla luce della storia del capitalismo globale e del caso specifico della Repubblica Democratica del Congo. Secondo il sociologo, gli abitanti della RDC – dove la situazione umanitaria è peggiorata per l’offensiva dei ribelli dell’M23 sostenuti dal Ruanda – sono sempre stati sfruttati per alimentare il frenetico processo della globalizzazione. “Scandalosamente” ricche, queste terre sono sempre state sfruttate a scapito dei loro abitanti. Prima per gli schiavi, poi per i minerali usati nella fabbricazione delle armi (tra cui l’uranio usato per costruire la bomba atomica sganciata su Hiroshima il 6 agosto 1945), oggi per il cobalto, il tantalio, il tungsteno e altre terre rare necessarie per la costruzione degli smartphone e delle batterie elettriche. Fabien Lebrun parla dunque di “tecno-colonialismo”, che utilizza gli stessi metodi del colonialismo e del neocolonialismo: lavoro forzato, frode, finanziamento di gruppi armati.
Nel suo libro, traccia un legame tra le guerre che da trent’anni dilaniano l’est della RDC e lo sfruttamento dei minerali necessari per costruire i dispositivi…
Le risorse necessarie per la “rivoluzione digitale” sono distribuite in modo molto disomogeneo nel mondo e la Repubblica Democratica del Congo è probabilmente l’unico Paese che presente nel suo sottosuolo quasi tutti gli elementi della tavola di Mendeleev. Da trent’anni centinaia di milizie operano nella regione. Chi le finanzia? Le potenze capitalistiche e il settore estrattivo mondiale. Dal mio punto di vista, questo è l’elemento centrale dei ripetuti conflitti nella regione. Ogni anno vengono venduti circa 1,5 miliardi di smartphone, 500 milioni di televisori, 500 milioni di PC, 200 milioni di tablet e 50 milioni di console per videogiochi, per non parlare dei miliardi di schermi e oggetti connessi che dipendono da minerali e metalli, molti dei quali si trovano in Africa centrale, almeno quelli più strategici.
Secondo lei, è dunque possibile che il gruppo M23, che sta per rovesciare Goma, sia legato ai minerali…
Nel 2021, il presidente della RDC, Félix Tshisekedi, ha firmato un accordo con l’Uganda per facilitare la costruzione di strade e il trasporto di prodotti minerari, forestali e agricoli. Quasi allo stesso tempo, diversi rapporti hanno mostrato che il fabbisogno di tantalio e minerali strategici per il 5G e le auto elettriche sarà in crescita. In questo contesto, diversi osservatori ritengono che il Ruanda, che non vuole perdere la sua parte in questo mercato, abbia rilanciato il gruppo M23 in reazione appunto agli accordi tra Uganda e RDC. Un’ipotesi plausibile soprattutto perché l’M23 ha messo rapidamente le mani sulla miniera di Rubaya, a Rutshuru, che contiene il 15% delle riserve mondiali di coltan.
Lo scorso dicembre, la RDC ha presentato diverse denunce in Francia e in Belgio contro le filiali di Apple accusandole di sfruttare “minerali sporchi di sangue”. Apple nega. Quali potrebbero essere le conseguenze?
C’era già stata una denuncia nel 2019, presentata negli Stati Uniti da un gruppo di avvocati contro Apple, Dell, Microsoft e Tesla per complicità nella morte di bambini nelle miniere di cobalto congolesi, poi archiviata nel marzo 2024. Ma il fatto che ora sia uno Stato a sollecitare la giustizia è senza precedenti e potrebbe determinare una più ampia presa di coscienza del problema.
Lei denuncia una continuità del capitalismo, dalla tratta degli schiavi all’estrazione dei metalli usati nei nostri dispositivi connessi. Cosa hanno in comune il commercio triangolare e l’estrazione mineraria in RDC?
Attraverso la storia della tecnologia e del Congo, riesamino il concetto di capitalismo, le sue radici e il suo sviluppo. Il mio punto di partenza è il concetto di “accumulazione primitiva del capitale” studiato da Karl Marx nel Capitale, ovvero il lungo periodo, dal XVI al XIX secolo, della tratta degli schiavi e del commercio triangolare, che ha unito Europa, Africa e America. È l’inizio della mondializzazione, che ha contribuito ai primi profitti, o capitali, soprattutto in Europa attraverso i conquistadores e i coloni. Assistiamo alla nascita dell’estrattivismo, prima dell’oro e dell’argento, estratti in modo massiccio nel continente americano a partire dal XVI secolo. Guardando alla storia, notiamo che esiste una continuità tra l’emergere di una rivoluzione industriale e la necessità di estrarre risorse naturali. Il Congo ne è un esempio: uomini, donne e bambini sono stati “sfruttati” come schiavi per soddisfare la domanda europea di zucchero, caffè e cacao. Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, è la foresta a essere stata sfruttata, in modo intensivo, soprattutto per il caucciù, sulla scia dell’espansione dell’industria automobilistica. Durante le guerre del XX secolo, sono stati estratti metalli per l’industria degli armamenti, tra cui l’uranio del Katanga, mentre negli anni ‘90, la ricchezza del sottosuolo del Paese è servita per fa fronte all’informatizzazione del mondo.
Lei spiega che il concetto di estrattivismo era praticamente scomparso. Quando è ricomparso?
È tornato venticinque anni fa, durante il cosiddetto “boom minerario”, che corrisponde allo sviluppo della tecnologia digitale, ma anche alla forte domanda dei Paesi emergenti (India, Cina…). Questo periodo è paragonabile al XVI secolo, il “secolo dell’oro”. C’è una continuità.
Cosa intende per “tecno-colonialismo”?
Le pratiche e la mentalità delle istituzioni coloniali perdurano nella divisione internazionale del lavoro e la produzione globalizzata: estrattivismo, frode e lavoro forzato che può essere paragonato alla schiavismo. Per alimentare la nostra globalizzazione, dobbiamo far lavorare uomini e donne congolesi.
Lei mette in discussione il linguaggio dell’attuale capitalismo digitale che parla di “dematerializzazione”. Perché?
Il termine “dematerializzazione” è centrale nell’ideologia capitalista contemporanea. Oggi si parla di cloud, di cyberspazio. In realtà, per costruire uno smartphone servono sessanta metalli, settanta per un’auto elettrica. Quanto più miniaturizziamo, tanto più utilizziamo elementi della tavola di Mendeleev. Nei prossimi venti o trent’anni dovremo estrarre più metalli di quanti ne abbiamo estratti in tutta la storia dell’umanità. Non abbiamo mai vissuto in una società così materiale. Parlare di “dematerializzazione” allora è falso. E lo stesso vale per l’intelligenza artificiale, che richiede l’elaborazione e lo stoccaggio di un’enorme quantità di dati. Ciò vuol dire costruire ancora data center, che richiedono l’uso di cemento, vetro, acciaio e acqua per il raffreddamento. Le energie rinnovabili si basano sullo stesso tipo di risorse. L’ideologia del capitale parla di “transizione”, ma non c’è transizione, c’è solo accumulazione. Elon Musk sa che i minerali si stanno esaurendo e vuole trovarli sulla Luna e su altri pianeti. Emmanuel Macron e altri vogliono cercarli nei fondali marini. La Russia e la Cina sotto i poli. Tutti sanno che il XXI secolo sarà un secolo estrattivista e che questi nuovi settori eviteranno il collasso del capitalismo. Ma il suo crollo è già iniziato.
Nel suo libro difende la disconnessione. Come raggiungerla in un mondo ultraconnesso?
Molti pensano che sia impossibile. Ma se consideriamo il posto che i dispositivi connessi stanno prendendo nelle nostre vite e le conseguenze che il nostro modo di vita sta avendo in Congo, mi sembra ovvio che bisognerà rivedere le nostre tecnologie e il modo in cui sono progettate, ed esigere che siano meno potenti e meno efficaci, in modo che ci sia una minore pressione sulla terra, sulla geologia, sulla terra e sulle persone. Bisogna reintrodurre la nozione di limite, non abbiamo scelta, iniziare una decrescita minerale e numerica, interrogarci sulle nostre reali esigenze e non su quelle create dall’industria.
Traduzione di Luana De Micco
* di Afrique XXI (giornale online partner di Mediapart)