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 2025  febbraio 03 Lunedì calendario

Hamas tiene in scacco Israele

Saddam Hussein aveva completato in un attimo l’"anschluss” del Kuwait, in Arabia Saudita si stava organizzando il più grande esercito della storia per punirlo. Lui, un po’ minaccioso un po’ seduttore, il vecchio metodo con cui aveva fatto buoni affari con gli americani, proponeva scambi politicamente micidiali (...mi ritiro se israele si ritira dalla Palestina...). E teneva come riserva degli ostaggi, occidentali che non erano riusciti a partire prima che la crisi precipitasse. Ricordo che, seguito da armigeri e telecamere, mise in scena l’incontro con le vittime, un classico dei sistemi totalitari. E dei grandi criminali. Camminava, sornione, in mezzo a facce stralunate, sorrisi disperati, distribuendo frasi benevole e previsioni confortanti. Si fermò davanti a un bambino, inglese mi pare: il piccolo si stringeva alla madre e guardava quell’uomo dagli occhi cattivi, affascinato dalla uniforme piena di fregi e aquile d’oro. Il raiss si chinò leggermente verso di lui e chiese: «questa mattina hai fatto il bravo? Hai bevuto il latte?».
Il latte del piccolo prigioniero di Saddam. Gli ostaggi. Bisognerà scriverne prima o poi una storia: come sono stati usati e gettati via, come si può far rendere la loro disperazione, come prolifichino una politica degli ostaggi, una diplomazia degli ostaggi. Non solo da parte di chi li ha sequestrati; ahimè spesso anche da parte di coloro che dovrebbero salvarli e liberarli.
Fino ad arrivare ad Hamas e allo “spettacolo” della liberazione, a puntate, distillata goccia a goccia perché Israele assista commosso, indignato, confuso alla propria sconfitta.
Sì perché si può dire che è una messinscena, che Hamas è distrutta, deve essere distrutta dopo un anno e mezzo di guerra metodica, moderna, efficacissima. Hamas non dovrebbe esistere più, i suoi tunnel, i suoi santuari. Neppure ospedali, scuole, uffici, Onu dove perfidamente si nascondeva, tutto polverizzato. Ma allora chi sono gli uomini in alta uniforme jihadista che montano i palchi, fanno corona agli ostaggi sorridenti, danno loro una mano a raggiungere i mezzi della croce rossa. Addirittura li difendono a spintoni da una folla furibonda di odio che li vuole linciare? Quanti sono? Dieci, cento, mille. Sono tutti i superstiti di un anno e mezzo di ripulitura accurata e spietata di Gaza? Tutti mobilitati a fare da comparse per l’orribile spettacolo dello scambio, ostaggi – tregua? Ne basterebbe uno anonimo, il viso coperto dal passamontagna come quel sette ottobre, la benda verde con la frase del corano, perché Netanyahu debba leggere in ogni fotogramma la prova che tutto quello che ha fatto in questi mesi di vendetta e il prezzo che hanno pagato Gaza e Israele (isolata e messa sotto accusa) sono stati inutili. Quarantamila morti, una terra ridotta a cadavere minerale per niente?
L’ostaggio manca di individualità per chi lo detiene e lo usa. La persona si dissolve nello scopo per cui lo si è catturato. Spogliato dalla sua natura umana diventa un oggetto. E come tutti gli oggetti in mercanzia è una cosa suscettibile di compravendita. La propaganda, come il terrore, obbediscono allo stesso sistema, per questo si incontrano così bene negli allestimenti di Hamas a Gaza. Il mondo del terrore come quello della produzione in serie è un mondo di cose, di utensili.
Per venderli, e bene, bisogna metterli in mostra. Come un tempo gli schiavi al mercato. Gli oggetti non sono mai misteriosi o enigmatici. Sono semplici prolungamenti della volontà del terrorista o dello Stato che li detiene. Non hanno vita se non quella concessa dalla loro volontà. Servono. Li hanno conservati per più di un anno gli uomini della Jihad palestinese. Poi consumati, vecchi, li gettano e li barattano con altri oggetti, immagini, fotogrammi con prezzi nuovi. Il plusvalore di questi sopravvissuti è il fatto che debbano recitare la propria liberazione.
Nell’antichità l’ostaggio era un pegno, una garanzia che il vincitore esigeva per esser certo che il nemico non preparasse subito la “revanche” e che pagasse l’ammenda per la guerra. Per questo gli ostaggi non erano soldati o popolani. Costoro non avevano valore. Erano i figli o nipoti dei notabili nemici. Bambini e adolescenti diventavano adulti nel palazzo o nella prigione del nemico, ne imparavano la lingua, incontravano ogni giorno coloro che avevano umiliato il loro Paese. Una volta liberati diventavano vendicatori, ribelli, nemici implacabili.
Poi c’è stata la stagione, terribile, degli scudi umani. Saddam era convinto, illuso, che fossero una garanzia contro un attacco americano (… non oseranno provocare la morte dei loro connazionali, noi siamo i barbari, loro hanno l’impiccio della pietà…). Non funziona più. Appartiene a un altra epoca della storia. L’ostaggio ai tempi di Gaza serve ad altro. Netanyahu voleva salvare i suoi, a parole, ma non ha rinviato o modificato di una virgola i suoi piani di punizione totale. Erano altre vittime inevitabili di quel pogrom sanguinario. Li ha aggiunti ai milleduecento morti dei kibbuz. Non voglio dire che li ha ignorati o cancellati. Li ha dissimulati, resi diafani come fantasmi. Per questo la lotta di coloro che li amano ed esigevano fossero il primo degli obiettivi del governo, a qualsiasi prezzo, è stata esibire ostinatamente le loro fotografie, esporle e imporle, per evitare che uomini, donne, bambini, civili e soldati si contraessero, si riducessero, diventassero ombra e fantasmi.
Hamas li sta liberando non perché Israele ha vinto ma perché Israele ha perso. L’ultimo orribile lucro che gli uomini della Jihad ne traggono è di farne i testimoni incredibilmente ancora vivi, al di là di ogni speranza, del fatto che a Gaza ci sono ancora loro. Non è lo spettatore occidentale che interessa, sono gli israeliani e gli arabi che vogliono davanti agli schermi. Hanno, purtroppo, ragione i leader fondamentalisti della destra che invoca il terzo tempio e il regno di Sion, a proclamare il ritorno a casa la resa di Netanyahu che prometteva di uccidere Hamas fino all’ultimo uomo. «Guardate – suggeriscono i jihadisti – siamo ancora qui in armi, allo scoperto, altro che tunnel, siamo così pietosi che difendiamo gli ostaggi dalla volontà di vendetta di coloro che avete bombardato da più di un anno, di cui avete distrutto le case, ucciso i fratelli. La guerra, anzi la resistenza continua!».
Le cifre della vittoria che i generali israeliani hanno scandito in questi mesi migliaia di miliziani eliminati, i tunnel distrutti, perdono consistenza di fronte a quelle immagini. Il tenebroso mondo sotterraneo che assicuravano di aver polverizzato con le bombe da cinquemila chili era probabilmente più profondo e intangibile di quanto immaginassero. Hamas si difende, si ricrea. Non vuole cambiare ma durare.
Anche questa volta si manifesta ai margini la curiosa simbiosi: quanto più grave è la violenza tanto più l’occidente si dichiara ottimista sul “processo di pace”, sulla “soluzione inevitabile dei due popoli e due stati”, da “rimettere in carreggiata”. Esausti ribadiamo frasi consunte: cessate il fuoco, terza fase, ricostruzione, mettere fine alla violenza, l’autorità palestinese deve controllare il suo popolo. Lo chiedevano già ad Arafat. Intanto la pace dei coraggiosi è diventata la pace dei morti