la Repubblica, 3 febbraio 2025
Così Repubblica cambiò il racconto del mondo
Sono arrivato a Repubblica nel 1986, l’anno del decennale, che poi a dicembre fu anche l’anno del primo sorpasso sul Corriere della Sera. L’intesa con Eugenio Scalfari era che avrei assunto la guida della redazione esteri. Eugenio era stato molto deciso, ancorché con il solito tono di voce suadente, nell’indicare che cosa si aspettava da me: «Il modo di narrare la politica internazionale va cambiato. Deve essere più sceneggiata, puntare sui personaggi, entrare nella loro testa, magari anche nelle loro case. Voglio racconti, non telegrammi diplomatici». Come ha ricordato Corrado Augias, era lo stesso approccio innovativo che Repubblica applicava alla narrazione quotidiana della politica interna: meno note politiche, più interviste, retroscena, personaggi.
Sull’estero era un più complicato, come feci notare a Scalfari, perché i corrispondenti non avevano gli accessi diretti ai protagonisti della politica come i cronisti parlamentari a Roma. Poi, a due settimane dal mio ingresso nel palazzo di piazza Indipendenza, Eugenio mi chiamò avanzando una richiesta spiazzante: «Si è scoperta la posizione di capo del politico. Potresti farlo tu per qualche tempo? Vieni da sei anni da capo della redazione romana alla Stampa, quindi il mestiere lo conosci». Ebbi una reazione perplessa.
Non ne potevo più della politica italiana, dei suoi rituali, dei suoi bizantinismi ed era proprio l’idea di rituffarmi nelle questioni internazionali che mi aveva spinto ad abbracciare con entusiasmo la proposta di passare a Repubblica, tanto da rinunciare perfino alla direzione del Secolo XIX. Eugenio si era accorto del mio sconcerto. E fece una mossa per superarlo. A tarda sera ricevetti una telefonata di Vittorio Zucconi da Washington, che mi spiegò che Scalfari sarebbe stato molto contento se avessi accettato, che io avrei fatto bene ad accogliere la sua richiesta e che, in fondo, questo avrebbe accelerato il mio ambientamento facendomi conoscere meglio l’intera redazione e i suoi quadri dirigenti.
Così, qualche giorno dopo, feci il mio debutto, sia pure in un ruolo diverso da quello immaginato, nella famosa riunione del mattino, della quale avevo sentito racconti mitologici che mi avevano incuriosito, ma anche un po’ intimorito. In effetti c’era una ritualità quasi solenne con l’ingresso di Scalfari che dava la mano al capo redattore centrale Franco Magagnini, come un direttore d’orchestra che stringe la mano del primo violino. Mi ricordai quanto mi aveva raccontato Jacques Amalric, il mio omologo di Le Monde a Mosca: nella loro riunione solo il direttore era seduto, tutti gli altri in piedi a recitare, settore per settore, il menù della giornata rivolgendosi al direttore con un rispettoso “voi” e mai con il “tu” del rapporto tra colleghi.
Qualche anno dopo mi capitò di assistere alla riunione del Washington Post, ancora diretto dal celebre Bill Bradley (magistralmente interpretato da Jason Robards nel film sul Watergate). Fu brevissima, appena una trentina di minuti. Al termine Bradley chiese la mia impressione. «Molto breve rispetto a quella che facciamo noi a Repubblica, che dura almeno due ore», risposi. «E che cosa vi dite in due ore?». Raccontai del giudizio approfondito sul giornale in edicola, della valutazione degli articoli, del confronto con gli altri quotidiani. Bradley, assai stupito, sorrise: «Sa come diciamo qui da noi. Il giornale il giorno dopo serve per avvolgere il pesce». Bradley era un uomo carismatico, ma non aveva assolutamente le qualità affabulatorie e la dialettica di Scalfari, che riusciva a tenerci inchiodati al tavolo dell’ufficio centrale così a lungo ogni mattina.
Il mio “per qualche tempo” al politico si prolungò ben oltre il previsto. Il 1987 fu un anno elettorale e Scalfari, lanciatissimo per il fresco sorpasso sul Corriere, voleva che Repubblica avesse un ruolo da protagonista. Il piatto forte furono le tavole rotonde nella sede del giornale con i leader dei principali partiti: De Mita per la Dc, Natta per il Pci, Spadolini per il Pri e Craxi per il Psi. L’ultima fu anche la più tribolata, nell’organizzazione e anche nella gestione, perché i rapporti tra il direttore e il segretario socialista erano, a dir poco, complicati. Nonostante i timori e un’attesa di ansia, ma anche di curiosità della redazione, alla fine fu una grande dimostrazione di fair play, pur con qualche elegante colpo di fioretto, da parte di entrambi.
Il sospirato approdo alla redazione esteri coincise quindi in pieno con l’era Gorbaciov a Mosca. E si pose subito un problema: con chi sostituire Alberto Jacoviello, che aveva deciso di tornare in Italia. Il ragionamento che facemmo con Scalfari fu il seguente: l’epoca delle «impenetrabili mura di mattoni rossi del Cremlino», che era stato lo slogan per le più svariate speculazioni cremlinologiche, era finita. Ora la politica sovietica, con la glasnost (trasparenza) e la perestrojka (ristrutturazione) gorbacioviane, poteva essere raccontata come quella italiana: con i retroscena sulla lotta politica, con i reportage sui cambiamenti della società, con le interviste alla gente che finalmente si sentiva libera di parlare. La scelta cadde su Ezio Mauro, che alla Stampa era il miglior interprete di quella cronaca politica da “insider” che era diventata un genere giornalistico.
Ezio si calò nel ruolo anche a Mosca, aderendo perfettamente al dogma scalfariano di narrare la politica estera con racconti e non con telegrammi da diplomatici. Girò instancabilmente il Paese che cambiava, intervistò personaggi che sembravano usciti dalle catacombe dell’Urss terrorizzata dal Kgb, raccontò quello che accadeva fuori ma anche dentro le mura del Cremlino. L’Urss di Gorbaciov diventò così il terreno sperimentale perfetto per realizzare l’idea di Scalfari di narrare la politica estera in modo diverso da quello tradizionale. Il passo del racconto, che era stato riservato alle inchieste dei grandi inviati speciali per la terza pagina, diventava quello delle cronache quotidiane dal mondo, grazie anche alla formidabile rete di grandi firme, che impreziosivano le pagine di Repubblica: Bernardo Valli, Sandro Viola, Vittorio Zucconi, per citarne solo alcuni di una lunga lista.
Fu un cambiamento che si rivelò vincente negli anni che seguirono, dove la politica internazionale dominò a lungo quello che si chiama il “primo sfoglio” dei giornali con una successione di eventi epocali: la caduta del Muro di Berlino, il crollo dell’impero satellitare sovietico, la fine dell’Urss, la prima guerra del Golfo. Fu un’età dell’oro per le tirature dei giornali (Repubblica superò le 700 mila copie) e anche per le speranze di un mondo migliore. Tanto che Francis Fukuyama, rispettato storico americano, parlò di «fine della Storia». Non si poteva prevedere che nel secolo seguente ci sarebbero toccati Vladimir Putin e Donald Trump.