la Repubblica, 3 febbraio 2025
I reduci dell’Albania riconoscono Almasri
Al riparo dalla pioggia battente, nella sala mensa del Cara di Bari, i 43 migranti arrivati sabato sera dall’Albania incontrano l’ultimo dei tanti italiani che vogliono parlare con loro. Il colloquio avviene nella grande tensostruttura bianca, risistemata dopo la devastazione di due mesi fa per protesta dopo la morte di un ospite del centro di accoglienza. Ai reduci dal trattenimento nel centro di Gjader e di un’estenuante traversata del Mediterraneo, il deputato barese Marco Lacarra scandisce più volte, sillabando: «Almasri. Avete mai sentito questo nome?» I ragazzi scuotono la testa. «Almasri significa egiziano – spiega la mediatrice culturale – per loro non vuol dir nulla». Il parlamentare alloraestrae dal giaccone il suo cellulare, cerca su google e mostra la foto. «Sì, sì», dice il primo di loro. «Quello è Osama». Tutti confermano, gli occhi sono iniettati di sangue. «Certo che l’abbiamo visto. Era uno dei capi, lì, nel centro dove siamo stati noi...», ripetono con rabbia.Il centro era un hangar nei pressi di Tripoli, la capitale della Libia. “Bir Lel Gama”, è il nome del lager ma tutti lo conoscono come “il cimitero”. È lì che hanno visto Osama Almasri, il torturatore che l’Italia si è fatta sfuggire nonostante un mandato di cattura internazionale e anzi ha accompagnato nel suo Paese con un volo di Stato. Lo hanno visto aggirarsi imperioso, dando ordini tra i corpi dei detenuti imprigionati, «era uno dei capi»,spiega un egiziano. Dentro il “cimitero” hanno lasciato i ricordi più terribili. «Le donne venivano violentate davanti a tutti», raccontano. E come strumento di pressione per ottenere il pagamento del riscatto – questo lo hanno spiegato ad Andrea Casu, collega di Lacarra, come lui del Pd – «le sevizie venivano videoriprese e mandate in diretta ai familiari in Egitto o in Bangladesh». Oppure, è emerso ieri, «utilizzando i bambini, dai dodici ai quattordici anni, come ostaggi per costringerci a saldare i nostri debiti». Cifre corrispondenti a tariffe che variano per nazionalità: duemila euro gli egiziani, quattordicimila i bangladesi. Uno di loro ha dovuto aspettare undici mesi, prima di imbarcarsi. «Siamo andati lì per lavorare, poi la polizia ci havenduti alla mafia». Quasi un anno di supplizi, scosse elettriche e bastonate sulle piante dei piedi, tagli e bruciature. Con il permesso di uscire solo una volta ogni due giorni per «fare il bagno», ovvero per lavarsi nell’acqua del mare.Ora che sono in Italia l’inferno, dopo la sentenza della corte d’appello di Roma che ha respinto il trattenimento nel centro di Gjader, sembra essere finito. Ma il mondo da cui scappano potrebbe riprenderseli, se qualcosa va storto nell’ingranaggio delle procedure accelerate di frontiera che il governo vuole utilizzare per fare di loro i primi trofei da esibire a chi invoca “stranieri a casa loro”. Al Cara di Bari sono liberi di entrare e uscire, ma sempre negli orari imposti dalla struttura, che si trova all’interno di un aeroporto militare. Dopo il trasferimento dall’Albania, sabato sera a Bari, hanno dovuto sottoporsi, fino alle due di notte, a un nuovo fotosegnalamento da parte della polizia scientifica, dopo quello che avevano già fatto nell’hotspot di Shengjin. Oggi arriveranno a Bari i primi avvocati da Roma per scrivere i ricorsi da presentare alla commissione territoriale per la protezione internazionale.Lacarra sta alle costole: «Ho chiesto di sapere entro domani se hanno tutti firmato il ricorso». Hanno tempo fino a giovedì: la nuova procedura prevede una settimana – nei moduli consegnati in Albania erano ancora riportati per errore i vecchi termini, quindici giorni – a partire dalla notifica del 30 gennaio. E un ricorso del genere, non è semplice, spiega Dario Belluccio, dell’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione: «Pensi solo che l’avvocato deve stabilire con l’assistito quel rapporto di fiducia che lo porti ad aprirsi, a raccontare il suo vissuto, le violenze subite, anche particolari intimi. E poi tutto va correttamente tradotto e riportato. Il consiglio nazionale forense dovrebbe intervenire. Perché in questo modo si svilisce il senso stesso della difesa».