Robinson, 2 febbraio 2025
Biografia di Vivian Lamarque
Quella di Vivian Lamarque è una storia speciale. Sono stato ad ascoltarla, a teatro, mentre parlava di Patrizia Cavalli, scomparsa nel giugno del 2022. Vivian fu spiritosa: «C’eravamo conosciute a Budapest, entrambe invitate da Giorgio Pressburger.
L’ultima volta che andai a trovarla, era già molto malata, fu in clinica dove era ricoverata per una frattura. Ricordo che inciampai e mi feci una distorsione a un piede. Mi portarono nella sua stanza in carrozzina. Fu buffo. Era il mio compleanno e Patrizia ridendo mi disse «per regalo ti pago una radiografia». La poesia di Vivian Lamarque racchiude due mondi apparentemente opposti, infanzia e vecchiaia, che in realtà coabitano in una sorta di bizzarra allegria. La sua ultima raccolta di versi vinse un paio d’anni fa il premio Strega per la poesia. Vivian sostiene di aver compiuto 80 anni. Qualcuno insinua che è una sua civetteria aumentarsi l’età. Mi dice che sta scrivendo per l’infanzia, storie di bambini sui barconi, in fondo al Mediterraneo o salvati dalle acque.
Sei tra le poche persone che hanno affrontato con libertà la propria infanzia e vecchiaia. So che temi parlarne. Ma cosa tiene insieme i due mondi?
«Avendo perso all’età di quattro anni una mamma e due papà, ho vissuto un lungo periodo di congelamento. Solo a quarant’anni ho trovato il coraggio di osare: ho intrapreso un’analisi che hasciolto il “ghiaccio” che imprigionava la mia vita. Ora che ho raggiunto l’età della vecchiaia mi sembra che la bambina di allora, poi rinata, si affacci quando vacillo e mi curi con la leggerezza e il gioco che si addicono all’infanzia».
Quel trauma fu provocato dall’abbandono, dal fatto cioè che fosti data in adozione. Lo hai spesso raccontato, mai però entrando nei dettagli.
«Forse perché i dettagli fanno più male. Avevo un nonno, un teologo valdese, che durante la guerra spedì sua figlia e i tre bambini di lei nel Trentino. Mia madre era vedova. Insegnò francese in una scuola e si innamorò del preside. Da quella relazione nacqui io. Fu un dramma che si prolungò per circa un anno, durante il quale vissi tra i monti con la mamma e i miei tre fratellini. Intanto il nonno pensava come risolvere il problema».
Immagino che negli anni Quaranta fosse difficile per una donna riconoscere una bambina nata da una relazione extra-coniugale.
«Praticamente impossibile. Il nonno era indeciso se spedirmi in un collegio svizzero o farmi adottare. Alla fine scelse l’adozione. Finii a nove mesi in una famiglia milanese. Non avevo compiuto neanche quattro anni che il mio padre adottivo morì in un incidente. Era un vigile del fuoco e mi adorava. Puoi immaginare cosa fu quella seconda lacerazione».
Come venisti a sapere dell’adozione?
«Avevo ormai dieci anni quando per caso scoprii nascosti in un armadio i documenti dell’adozione. La nuova mamma non aveva osato dirmelo e io stessa pur essendone venuta a conoscenza continuai a non dire nulla. Fu allora che iniziai a scrivere poesie.
Trascorsero anni di grande confusione. Tra le stranezze mi capitava di pedinare tutte le persone che mi somigliavano».
Hai cercato di contattare la famiglia di origine?
«Li ho cercati, certo, trovandoli tutti. Anche i miei fratelli, che nel frattempo continuavano a chiedere che fine avessi fatto. Furono felici di rivedermi. Lo stesso non posso dire di mio padre: al suo ennesimo rifiuto di rincontrarmi ingerii un tubetto di farmaci».
Immagino la tua sofferenza.
«Che gli anni della maternità attenuarono. Devo molto a mio marito che amava la poesia. Mi piaceva quando mi recitava Eliot e in napoletano Di Giacomo. Fu lui che mi incoraggiò a pubblicare. Poi purtroppo il matrimonio finì».
La tua non è stata una vita facile. So che chiedesti aiuto.
«Avevo 38 anni quando iniziai l’analisi junghiana. Non puoi immaginare quanto lavoro dovette impiegare il mio dottore per ricostruire la mia linea di confine tra immaginario e reale».
Cosa hai scoperto con l’analisi?
«Dopo i trascorsi incontri con tanti fantasmi del passato, scoprii l’amore concreto per la mia madre adottiva che con sacrifici mi ha cresciuto nonostante avesse avuto un’infanzia drammatica che sembrava uscita dal film L’albero degli zoccoli».
Perché Jung e non Freud?
«L’indecisione non fu tra Jung e Freud ma tra Jung e Lacan, che mi era consigliato dai poeti. Il lacaniano mi ascoltava per 20 minuti, lo junghiano per più di un’ora. A proposito di Jung, raccoglierò per i 150 anni dalla nascita tutte le poesie scritte per il mio analista».
Hai accennato a tuo nonno, un’importante figura del mondo valdese. Che rapporto hai con questa religione apprezzata per probità e coerenza?
«Ci fu un momento in cui pensai a una conversione. Ma i miei parenti valdesi non erano del parere. Temevano che si sarebbe scoperta la storia che il nonno volle tenere nascosta».
Hai mai conosciuto Marina Jarre e Paolo Ricca, due valdesi straordinari?
«Con Marina ci siamo scambiate delle lettere. Ricca non l’ho conosciuto. Ma ho incontrato altre figure di valdesi quando ero in visita clandestina a Torre Pelice».
Clandestina?
«Mia madre, se incontravamo qualcuno, mi presentava come amica e non come figlia».
Nei tuoi versi sono presenti i tratti autobiografici. Come se la vita fosse stata una risorsa indispensabile per accendere la tua poetica.
«Essere autobiografica mi fa sentire ogni tanto in colpa. Ma poi scopro che i lettori si rispecchiano nei miei versi».
È una poesia che contempla i grandi temi dell’amore e della morte.
«Pur essendo tutti diversi voliamo sempre lì attorno. Ognuno con la sua zavorra. L’anagramma del mio nome è “Qui l’amar vien va”. Di amore ne ho avuto anche da piccola, ma spariva sempre sul più bello e in un baleno, senza preavviso. Per fermare quelle “piccole morti” ricorrevo all’immaginario».
L’immaginario è un mondo complicato. Che cos’è la semplicità per un poeta?
«Una volta, dopo una lettura, un ragazzo alzò la mano e mi chiese: “che poesie sono le sue? Si capisce tutto!”. In un’altra occasione un bambino scrisse di un mio libro di fiabe: “ben scritto ma un po’ infantile”. Sorprendente. Lui aveva 7 anni e io 50! Benedico ItaloCalvino che ha scritto della “difficile facilità”».
Ti sei mai chiesta a cosa servono i poeti?
«In un mondo in cui si cerca soltanto ciò che è utile i poeti non servono a niente. Faccio mia una bellissima sentenza di Patrizia Cavalli: «Le mie poesie non cambieranno il mondo». Forse le nostre non lo cambieranno, ma in una poesia mi accadde di scrivereforse lo cambierà un poco il mondo/ però tra tanto tanto di quel tempo/ come un nevicare lento lento lento. Quel “forse” oggi però si incatena a nuovi dubbi».
Forse è la mitezza dei poeti a impedire che il mondo cambi.
«Mitezza apparente. Se siamo poeti siamo perennemente in guerra e oggi più che mai. Come non provare sdegno per quello che fanno non a noi, che siamo dei privilegiati, ma a milioni di inermi? Penso spesso al verso con cui Parini chiude Il Mattino: “Spettacol miserabile”».
Ma tu come reagisci allo spettacolo indecoroso?
«Quello che avviene mi mette a volte la penna in mano, ma poi mi frena una specie di pudore. Penso: io qui beata a comporre versi mentre loro vengono trucidati. Comunque il poeta mentre scrive una cosa ne scrive anche un’altra».
Che cosa intendi dire?
«Mi viene in mente a quanto vi è dietro la “Capra” di Saba, dietro una capra che “sazia d’erba bagnata dalla pioggia, belava”».
Cosa ti suscitano quei versi?
«Il dolore umano che il poeta testimonia anche nella forma estrema della Shoah».
Vittorio Sereni parlava di “intelligenza del cuore”. Quanto di essa è necessaria alla poesia?
«Sono state scritte grandi poesie anche con altre intelligenze. Per esempio La pioggia nel pineto di D’Annunzio».
Che importanza dai alla lettura dei poeti?
«Amando la poesia è impossibile per me non leggerla».
Quali prediligi?
«Emily Dickinson, sempre. Con gli altri poeti sono infedele, vado e vengo come un sultano da un harem. Ho iniziato l’anno con i Madrigali del Tasso, belli da piangere. Tra i vivi mi colpisce il dialetto veneziano di Andrea Longega».
Come definiresti la “voce” in poesia?
«Ho iniziato a scrivere poesie per essermi troppe volte negata la voce, la parola. Non la definisco, ma la ritengo indispensabile».
Allora come nascono le tue poesie?
«Sia velocemente che lentamente. Come un gatto cattura un topo, così afferro un verso che mi passa per la testa. Invece lentamente poi lo elaboro, correggo tanto. Correggo anche le mie poesie già pubblicate. Invece quelle appena scritte, a volte le perdo nel computer. I miei nipoti, per fortuna, riescono a recuperarle. Mia figlia salvò le Poesie cinematografiche che avevo cestinato».
Hai ogni tanto fatto delle traduzioni. Che esercizio è per un poeta tradurre altri poeti?
«Gran parte delle traduzioni, da Baudelaire a Valéry, furono committenze. Non ero mossa da febbre. Ogni tanto invece ronzo con passione attorno a Emily. Ma è un Everest, non riesco a scalarla. Però il suo Meridiano me lo sono qua e là “vivianizzato”, non a penna ma con una matita sottile».
Delle tue raccolte trovo una certa continuità tra “Mare d’inverno” e “Amore da vecchia”. Come se il tempo congelasse la parte migliore della nostra vita.
«Ti confesso che tra le due raccolte preferisco Mare d’inverno».
La poesia, si dice, svela la verità. Ma la verità è temibile più della menzogna.
«Ne ho paura, non la pronuncio mai».
Hai sempre usato il cognome coniugale Lamarque. Perché?
«Altre lo hanno fatto. Natalia Ginzburg, Rosetta Loy, Virginia Woolf. Siamo tutte ladre di cognomi. Lo scelsi perché allora non sapendo decidere quale tra i tre, sentivo che suonava bene. Oggi penso suoni troppo bene».
Tre cognomi sono tanti.
«Uno del babbo che mi affiliò, e che intanto era morto, uno della mamma che mi adottò. Il terzo spuntò un giorno sulla targa della porta di casa. Tornavo da scuola e credevo di aver sbagliato piano. Era Comba, quello della mamma valdese di cui ancora non avevo scoperto l’esistenza»
Perché comparve quel cognome?
«Penso fosse rispuntato perché potessi ottenere una certa somma che il nonno inviò quando seppe del lutto paterno. Comunque quell’avvenimento complicò le cose nella mia testa. Chi ero veramente? Identità addio».
L’identità l’hai cercata e ritrovata nella scrittura.
«Molto lentamente. Quello che si dice farsi un “nome”. Ma poiché certe paure entrano nel Dna, se ne è subito formata un’altra di ricambio. Non più il rifiuto per l’invisibilità, ma quello per troppa visibilità».
La visibilità è una condizione alla quale in quest’epoca molti aspirano.
«Non dovrebbe essere tra le priorità del poeta».
Sei stata una bambina adottata. Cosa pensi delle odierne adozioni?
«Hanno fatto passi grandi. Mezzo secolo fa con mio marito, pur avendo già la nostra bambina, abbiamo cercato di adottarne un secondo. Fui giudicata prima “particolarmente idonea” per la mia storia, poi all’ultimo momento, quando ci avevano già annunciato il nome del bambino e il giorno del ritiro, “assolutamente non idonea” perché adottando avrei rivissuto la mia storia».
Con che grado di serenità ripensi al tuo passato?
«Penso due cose: la prima, avere vissuto, saltellando clandestina tutta la vita tra due così diverse famiglie mi ha dato una specie di radar, riconosco il dolore altrui da mille miglia. La seconda è il rovescio della medaglia: in entrambi quei mondi mi sento un pesce fuor d’acqua».