la Repubblica, 2 febbraio 2025
Parla Jean Todt
Vista sul lago di Ginevra, cime innevate. Due foto sulla scrivania: del figlio Nicolas, manager di Charles Leclerc, e della moglie attrice premio Oscar, Michelle Yeoh. Jean Todt guarda poco indietro, ma sa: «La Ferrari? È il passato, anche se è il capitolo più importante della mia vita». Anche della storia della Scuderia con il francese a capo (1993-2009): 14 titoli mondiali, di cui 5 piloti con Michael Schumacher. Nessuno conosce, più di lui, le condizioni del campione tedesco caduto dagli sci a Meribel nel 2013 e da allora protetto dalla riservatezza. Ex copilota di rally, dirigente dalle mille vite, quasi 79 anni, Todt ha governato la federazione internazionale dell’automobilismo (2009-2021) e da dieci anni è inviato speciale dell’Onu per la sicurezza stradale. Alle Nazioni Unite, tra una call col ministro dei trasporti della Somalia e l’organizzazione di un meeting a Marrakech, ci riceve sorseggiando tè caldo.
Non smettiamo di chiederci di Michael.
«La famiglia ha deciso di non rispondere alla domanda. Scelta che rispetto. Lo vedo regolarmente e con affetto, lui e i suoi. Il nostro legame va oltre i trascorsi di lavoro. È parte della mia vita, che oggi è molto lontana dalla Formula 1».
Ci spiega il suo ruolo oggi?
«Combattere questa pandemia silenziosa che sono le vittime degli incidenti stradali: 1,2 milioni di morti, 50 milioni di feriti con disabilità. Il 90% degli incidenti? Nei Paesi a basso reddito. Io devo sensibilizzare e agire, con governi e privati».
Come?
«Abbiamo creato un casco per motociclisti hi-tech al costo di 20 dollari. Ho un gruppo di amici che mi sostengono, istituzioni, il Comitato Olimpico, sponsor, abbiamo lanciato una campagna col supporto di JCDecaux con 16 celebrità in 80 Paesi e mille città, tra cui Roma e Milano con i sindaci e il ministro Salvini. La ricetta è semplice: educazione, applicazione della legge, livello e qualità dei veicoli, delle strade e dei soccorsi, cinture di sicurezza, casco, no all’uso del telefono, di droghe e alcol, controllo della velocità. Se tutto questo fosse applicato, ridurremmo di metà il numero delle vittime. In molte aree il trasporto pubblico non c’è, invece è un diritto umano».
Come è arrivato a occuparsi di sicurezza?
«È un tema che mi appassiona da sempre e sento il dovere di restituire alla comunità. Non ho compensi. Nel lavoro, nell’amicizia e nell’amore serve dare e prendere. Nel motorsport sono stati fatti molti progressi fino all’Halo sull’abitacolo: erano tutti contrari, invece ha salvato molte vite. L’essere umano è ciò che mi interessa più di tutto, per questo con degli amici tra cui il professore Gérard Saillant e Michael abbiamo creato l’ICM, l’istituto del cervello e del midollo spinale a Parigi, 25 mila metri quadrati e mille ricercatori. Cominciai nel 2004, andai da Michael nel motorhome e gli dissi: saresti disponibile a contribuire al progetto? Accettò subito».
Il passato in Ferrari e con lui è solo orgoglio o anche un peso?
«La vita è fatta di capitoli e quello vissuto in Ferrari è stato il più importante e stimolante della mia carriera. A Maranello ho trascorso 16 anni come capo delle corse e poi amministratore delegato, e questo mi è rimasto siglato sulla pelle. Dovunque vada la gente mi assimila ancora oggi, ed è incredibile, a quel periodo. Torno ogni anno tra Natale e Capodanno a festeggiare con gli amici con cui ho lavorato in Italia. Ho portato ancora mia moglie a rivedere la casa dove abitavamo a Colombaro di Formigine».
È rimasto in contatto con la Ferrari?
«Da quando sono andato via ho sentito alcuni membri della squadra, ma da quando ho lasciato la Fia non ho mai più avuto un contatto: devo dire che sono rimasto molto perplesso visto quanto tempo ho dedicato a questa azienda incredibile e a quanti risultati abbiamo ottenuto».
Perché non piaceva ai tifosi all’inizio?
«Pensavano che da francese non capissi nulla dell’Italia, che fossi lì per prendere dei soldi e poi sarei scappato».
Invece.
«Quando arrivai nel 2003 trovai un castello in rovina, non c’era niente. L’area design in Inghilterra, in sede una galleria del vento vecchia e inutilizzabile. Convocai tutti, nonconoscevo nessuno dei trecento di allora, il mio italiano consisteva nel sostituire A oppure O alle parole francesi. Ma piano piano abbiamo costruito un gioiello: nel ’96 è arrivato Michael, poi Ross Brawn, Rory Byrne, Aldo Costa, Paolo Martinelli, Gilles Simon. Dissi: la mia porta è sempre aperta. Li costrinsi a lavorare di più, anche di notte. Andavo da loro con le brioche, mica aspettavo a casa gli sviluppi trastullandomi con l’arte».
A proposito, ne è molto appassionato.
«Michelangelo Pistoletto, Frank Stella, James Rosenquist, Andreas Gursky, Bertrand Lavier».
Lei si ritiene un artista dei successi della Ferrari?
«No, io da solo non avrei fatto niente, sono stato bravo a formare e a tenere una squadra per anni, facendone undream team. I 14 campionati vinti rimangono sui libri, è stato il periodo più proficuo della storia della Ferrari. Il mio passato in Italia non è solo legato a Michael, anche se è stato un pezzo importante del puzzle, il più visibile. Aveva un talento particolare, ma anche una squadra particolare, il che è cruciale per l’automobilismo eper altri sport. Anche nel tennis, ma poi c’è un Sinner che da solo deve buttare la palla dall’altra parte».
Segue Jannik?
«Sì, essendo il numero 1, ma non lo conosco, a Stefano Domenicali piace e me ne parla spesso. Io amo Djokovic e prima di lui, Nadal».
Ricordo più bello in rosso?
«Suzuka 2004, un traguardo per cui avevamo sofferto e per cui ero stato assunto dando tante energie, anima, cuore, passione. Ho sentito la stessa gioia per l’Oscar di mia moglie, diventata un simbolo delle donne, dell’Asia, delle diversità. Oggi è impegnata su molti fronti ed è membro del Cio. Un percorso lungo, ma ci è arrivata con merito come noi in Ferrari all’epoca, dopo tanti campionati persi per un soffio, compreso quello dopo lo scandalo di Singapore 2008. Se alla fine abbiamo vinto è anche grazie a Montezemolo, che credeva in noi e con coraggio ci lasciò lavorare, l’errore sarebbe stato ripartire da zero».
La Ferrari di oggi ha delle similitudini con la sua?
«Da spettatore non ho elementi per giudicare, non sono neanche curioso di sapere quello che si fa all’interno, anche con mio figlio non ne parlo. Quando sono andato via nel 2009 con Domenicali capo delle corse, la squadra c’era e c’è ancora, anche se non al livello per i titoli per quanto ci siano andati vicino con Alonso, Vettel, Leclerc. C’è ancora tutto per vincere, manca molto poco».
E ora c’è anche Lewis Hamilton.
«La coppia Leclerc-Sainz è stata molto buona, nessuno può sostenere che abbiano perso per colpa dei piloti. Anche sulla coppia Leclerc-Hamilton non c’è molto da dire, è altrettanto buona. Migliore della precedente? Non ne ho la minima idea, così come non so giudicare se il 2025 sarà favorevole, il livello della macchina ce lo dirà».
Leclerc potrebbe soffrire accanto a un 7 volte campione?
«Per me ha invece un’opportunità. La stessa di Russell con Hamilton. Tutti vogliono superare il proprio compagno».
Il suo pilota preferito?
«Leclerc. Verstappen oggi è il migliore sul campo».
Esistono eredi di Michael?
«Vettel, Hamilton, Verstappen. Michael è un fratello, un amico, è un’altra cosa. Nella storia alcuni piloti hanno scritto qualcosa di particolare e lui è uno di questi. Cosa mi ha insegnato? L’umiltà, sembrava arrogante invece era timido, si proteggeva. Voleva vivere normalmente, andare a prendere i figli a scuola, cosa che faceva».
Mick, il figlio, è ormai fuori dal Circus.
«Penso che non sia stato trattato bene dalla Formula 1. Ha guidato una Haas non competitiva, anche se un paio di incidenti sono costati molto alla squadra. Però alla fine è stato davanti al suo compagno. Lo hanno scartato per motivi loro, senza dargli un’altra chance che secondo me meritava. Lo trovo ingiusto».
Ha sofferto il fatto di essere il figlio di Michael?
«Non gli ha dato nessun vantaggio. Eppure ha vinto la F3, la F2, ha guidato una brutta macchina in Formula 1 e mai una buona. Certo, mi ha chiesto consigli, se avessi potuto gli avrei dato una mano. Comunque la F1 non è più il mio centro di gravità, anche se non mi perdo per nessuna ragione un gp né altre gare di varie categorie».
La Fia ha inasprito le multe per chi dice parolacce.
«Le cose sono fatte per cambiare, a volte migliorano o peggiorano, ho la mia idea ma la tengo per me. Lascio ai critici i commenti, se li facessi io sembrerei un vecchio amaro e frustrato, e non è così».
La F1 si espande, per qualcuno si sta snaturando.
«I proprietari hanno fatto un lavoro perfetto nello scegliere i gp nel mondo e saputo vendere bene in paesi e a un pubblico nuovo di giovani e donne, anche grazie a Netflix eDrive to Survive. Dobbiamo accettare l’evoluzione: non esistevano le reti sociali, oggi sono mezzi sfruttati molto bene. Un gp in Africa? Personalmente sarei contento, ma bisogna chiedersi se sia una priorità per gli africani».
Lei cosa farà da grande?
«Continuo i miei impegni. E sto anche scrivendo un’autobiografia, con foto e testimonianze, che dovrebbe uscire tra 2026 e 2027. Tempo libero? Non ne ho, per fortuna».