la Repubblica, 2 febbraio 2025
Per una volta Cazzullo non intervista ma è intervistato
Intervistare Aldo Cazzullo è sfidare un maestro del genere.
In quaranta minuti al telefono riusciamo a parlare di tutto, o quasi: del successo editoriale, con due libri in top ten, di quello televisivo consacrato da Una giornata particolare su La7 (in programma a partire da marzo, quattro puntate dedicate al libro sulla Bibbia). E poi del teatro, del giornalismo, di politica. L’editoria perde 23 milioni di euro, la saggistica annaspa, ma Cazzullo rema controcorrente e domina la top ten del 2024. Origini popolari, non dimentica le proprie radici. Parla veloce, pensa veloce.
Il tuo libro, “Il Dio dei nostri padri” (HarperCollins), è il più letto del 2024. Come spieghi tanto interesse per la Bibbia, ha ragione il ministro Valditara a volerla nei programmi scolastici?
«La Bibbia parla di noi: de te fabula narratur, è di te che si parla in questa storia. Siamo stati tutti Caino quando abbiamo detestato qualcuno, siamo stati tutti Davide quando abbiamo affrontato una sfida impossibile come quella contro il gigante Golia. E poi c’è un elemento personale, un’intensità emotiva, che credo di aver trasmesso ai lettori. Questo è un libro che ho scritto al capezzale di mio padre. Si è ammalato gravemente nell’autunno 2023, è morto a Natale. In quei mesi ho riletto la Bibbia».
Avevi bisogno di entrare nel mondo di tuo padre o semplicemente di conforto?
«In quella fase difficile, mio padre aveva vissuto un’esperienza pre-morte. Quando si è ripreso mi ha detto: “Aldo, l’aldilà esiste”. A quel punto gli ho chiesto: “Ma ne sei sicuro?”. E lui: “Sicuro no, però ne sono convinto”».
Che cosa era successo?
«Aveva sentito la presenza di suo padre, nonno Lorenzo. Era stato lui a rassicurarlo sull’aldilà. Forse si è spento più serenamente, anche grazie a questa convinzione. Quella era una generazione che credeva in Dio come nel fatto che il sole sorge e tramonta. Aveva una fede naturale, sentiva di vivere sotto l’occhio di Dio».
E tu credi che l’aldilà esista?
«Sono agnostico, so di non sapere. Però confesso che qualcosa si è mosso. Un po’ l’esperienza di mio padre, un po’ le tante interviste che ho fatto, un po’ la rilettura della Bibbia e il libro: oggi una speranziella che Dio esista ce l’ho. Forse risponderei come Gustavo Thöni e Rafael Nadal quando li ho intervistati: mi lascerò sorprendere».
La tua è una famiglia cattolica?
«Vengo dal Piemonte bianco, dalle Langhe. Torino è una città secolarizzata, operaia, comunista. I torinesi sono inquadrati, strutturati, militari, operai, preti sociali. I langaroli sono degli irregolari, cercatori di tartufo, vinaioli, giocatori d’azzardo, scrittori, suicidi come nel bellissimo racconto di Fenoglio Il gorgo. Uno dei miei due nonni, quello materno, nonno Aldo, era un macellaio che a dodici anni andò garzone nella bottega di Amilcare Fenoglio che era il papà di Beppe».
I tuoi libri sono bestseller, in tv lo share ti premia. Qual è la formula del successo?
«Una cosa che mi disse tanti anni fa Ezio Mauro: nessuna storia senza un’idea, nessuna idea senza una storia. Se io raccontassi solo cose astratte, annoierei. Se raccontassi solo dettagli, episodi, personaggi, farei pettegolezzi. Nei miei libri cerco di sostenere sempre una tesi. In A riveder le stelle, ad esempio, l’idea che Dante non è solo padre della lingua italiana ma è l’inventore dell’Italia. Il nostro Paese non nasce solo dalla politica e dalla diplomazia ma dalla cultura e dall’arte».
Forse l’identità italiana è proprio il leitmotiv delle tue opere.
«Noi italiani siamo più legati all’Italia di quanto amiamo riconoscere. Ci piace parlarne male, ma se lo fanno gli stranieri ci arrabbiamo. L’Italia è come la mamma, la possiamo criticare soltanto noi. Per noi la patria è molto importante: è lo Stato il nemico».
Calamandrei sosteneva che l’idea di patria era stata vilipesa dal fascismo.
«Sicuramente il nazionalismo di cartapesta fascista non ha aiutato. Ci siamo inventati un Mussolini immaginario, buon padre di famiglia, amante focoso, statista che fino al ’38 le aveva azzeccate quasi tutte. Ma la mancanza di senso dello Stato è più antica, perché siamo stati dominati per secoli dagli stranieri, quindi siamo abituati a pensare che lo Stato sia altro rispetto a noi. Questo è anche uno dei motivi per cui la sinistra non vince mai: perché la sinistra per l’italiano medio è sinonimo di Stato, di politica e di tasse».
Perché l’antifascismo non riesce a essere ancora oggi un valore unificante?
«Perché ci sono tantissimi anti-antifascisti. Quelli che rimandano costantemente la palla nell’altro campo e argomentano: “allora le foibe” o “allora le vendette partigiane” e così via. Meloni è un’anti-antifascista. Bisogna riconoscere invece con chiarezza che c’era una parte giusta e una parte sbagliata. Ho toccato con mano quanto scotta la questione. Quando ho scritto Mussolini capobanda sono stato preso di mira con insulti, telefonate anonime, messaggi intimidatori».
Sei in classifica anche con il libro Craxi. L’ultimo vero politico (Rizzoli). Che opinione hai su di lui? È in corso una riabilitazione?
«Ho un giudizio molto severo su Craxi. Il mio è un ritratto in chiaroscuro, luci e ombre. Commise errori e anche reati. Però fu anche il primo socialista presidente del Consiglio, tenne alta la dignità nazionale a Sigonella. E poi come ha riconosciuto Eugenio Scalfari, che con lui come è noto era molto critico, l’uomo ha avuto la grandezza della fine».
Seguisti gli ultimi giorni di Craxi da cronista per la Stampa.
«Mi mandarono a Hammamet a raccontare quella che sembrava dovesse essere una farsa e mi trovai a raccontare una tragedia. Noi italiani non abbiamo un rapporto maturo con il potere. Il leader viene blandito o abbattuto: Mussolini a testa in giù, Moro nel bagagliaio della Renault rossa, Craxi sepolto sotto le mura della medina di Hammamet. Se un politico dicesse, come Kennedy, “non chiederti che cosa il tuo Paese può fare per te chiediti quello che tu puoi fare per il tuo Paese”, lo inseguirebbero con i forconi».
Sul futuro del giornalismo sei ottimista o pessimista?
«I padroni della Rete ci fregano in tutti i modi: rubano il nostro lavoro, rastrellano la pubblicità e non pagano le tasse. Sono i più grandi editori del mondo, ma non sono responsabili dei loro contenuti. Musk fa addirittura interviste appoggiando i peggiori figuri, compresi i post-nazisti tedeschi. Bisognerebbe fare accordi ma il mondo con Trump sta andando in un’altra direzione».
Hai intervistato i più grandi, compresi Bill Gates e Rahul Gandhi.
«L’intervista a Rahul Gandhi è stata una vera avventura. Erano anni che la chiedevo. Lui è figlio di una torinese, Sonia Maino. Alla fine mi ha detto di sì, ma ho dovuto raggiungerlo in Kashmir. Mi ha raccontato la storia della sua famiglia a cominciare dalla nonna Indira. Bill Gates invece mi ha un po’ deluso. Mi aspettavo di trovare il Leonardo da Vinci del nostro tempo,ho trovato invece un businessmen che parlava soprattutto di soldi».
Gli scoop sono importanti?
«Certo che lo sono. Il mio primo lo feci quando incontrai Edgardo Sogno che prima di morire volle raccontare in un libro la sua idea di colpo di Stato (il libro è Testamento di un anticomunista, ndr)».
Un’intervista che non sei ancora riuscito a intascare.
«Mina! Impossibile. Forse potremmo provare insieme Corriere della Sera e Repubblica!»