Corriere della Sera, 2 febbraio 2025
Parla Massimo Sestini, sopravvissuto
Massimo Sestini, raccontami il giorno in cui hai rischiato di morire.
«Cominciamo col dire che io una foto l’ho fatta, anche quel giorno. Ci sono riuscito. Mi ero immerso con il reparto sommozzatori di San Benedetto della Guardia Costiera che era in addestramento nel lago di Lavarone, sotto il ghiaccio. Non era facile, l’acqua torbida, solo un buco dal quale entrare e uscire. Per me non era la prima volta, lo avevo fatto con il Consubin della Marina Militare anni fa. Il giorno dopo dovevo volare sulla Marcialonga con l’elicottero, come sai mi piace guardare le cose che racconto da punti di osservazione particolari…»
E quando ti sei immerso, cosa è accaduto?
«Un evento rarissimo, mi si è bloccata la glottide, paralizzata. Ero per fortuna con la testa appena sotto il ghiaccio, neanche a mezzo metro di profondità vicino al buco, ma ho creduto che si fosse rotto il mio erogatore. Allora ho usato quello secondario. I subacquei hanno sempre due erogatori, uno di riserva, in caso di emergenza. Prendo l’erogatore secondario ma non funziona e non mi spiego perché. Non capisco, nella concitazione, che mi si è bloccata la glottide, penso solo che non vada bene l’erogatore. Avevo un subacqueo accanto a me, gli ho chiesto a gesti di darmi il suo erogatore ausiliario, perché credevo che i miei fossero rotti. Ma anche il suo, per me, non funzionava, non poteva essere possibile. Nel frattempo ho cominciato a ingerire acqua da tutte le parti. Lui mi ha dato quello con cui stava respirando regolarmente e quando gli ho fatto capire che per me anche questo era rotto, ha subito compreso che la glottide era bloccata e in fretta mi hanno tirato fuori».
Saresti stato spacciato…
«Sì, in trenta secondi mi hanno disteso sul ghiaccio, sputavo acqua e sangue, e Giuseppe Simeone, capo del primo nucleo sub della Guardia Costiera, mi ha fatto un doppio massaggio cardiaco. La mia fortuna è stata che lui si era appena brevettato, venti giorni prima, istruttore di salvataggio. Lui fa il salvataggio a Lampedusa con la Guardia Costiera e mi ha raccontato per loro è un onore anche solo recuperare un cadavere e poterlo riportare ai suoi cari. Vite esemplari».
Eri cosciente?
«Sono rinvenuto subito. Nel frattempo era partita l’emergenza. Sei legato, sott’acqua. Hai una sagola, c’è un codice di strattoni che tu applichi se ci sono problemi, su quella base gli operatori in superficie decifrano la natura del pericolo e danno l’allarme. È arrivato immediatamente l’elisoccorso. Ma io, che sono un incosciente, ho detto che stavo benissimo e non volevo andare in ospedale. Il medico faceva di tutto per convincermi. Mi diceva che era necessario un elettrocardiogramma, un controllo della pressione. Io ho risposto che non se ne parlava proprio, stavo bene. A quel punto il dottore mi ha detto chiaramente: “Guarda che potresti morire, se non vieni potresti morire”. Mi è sembrato un argomento convincente e a quel punto sono andato. Eccome se sono andato».
E in ospedale cosa è accaduto?
«A causa della quantità di acqua ghiacciata che avevo assunto mi è venuta una polmonite molto grave e stavo di nuovo per andarmene. Ma era destino. Prima l’arresto cardiaco nel ghiaccio e poi la crisi polmonare: sembrava che toccasse proprio a me. Ma sono qui, grazie all’efficienza dei soccorsi immediati e alla meravigliosa organizzazione della sanità del Trentino. Avranno anche più soldi del resto del Paese, ma li spendono bene. Le loro ambulanze sono gli elicotteri. Ed è incredibile con quanta passione civile e professionalità loro riescano a salvare vite. Sarò sempre grato a queste persone in divisa e in camice che mi hanno tirato fuori dalla morte».
Per come ti conosco non deve essere stata la prima volta che hai rischiato con il tuo lavoro…
«Una volta, durante un’immersione, mi ha sparato un sommergibile e il siluro mi è passato a un centimetro dal polpaccio. Ne ho fatte di cotte e di crude, nella mia vita. Sono anche caduto da un elicottero e mi sono salvato restando imbragato come nei film di 007. Mi sono fratturato in mille pezzi un piede cadendo da una torre alta quattro metri, vicino a Perugia. Sto seguendo il giro del mondo della Vespucci, siamo arrivati a Capo Horn. Ogni volta che vado mi arrampico a 57 metri d’altezza oppure mi sporgo da elicotteri in posizioni veramente funamboliche».
Il pericolo è il tuo mestiere?
«No, è un derivato del mio mestiere, raccontare con le immagini la vita del mondo e delle persone. Ti dico la verità, non ci penso, né al rischio né alla morte. Sono incosciente perché non sono multitasking e quindi mi concentro solo su una cosa per volta. Per me contano le foto che devo fare, il resto sparisce».
Ricordi le prime parole che hai sentito quando sei uscito dal coma?
«La voce dell’anestesista che mi diceva con dolcezza: “Massimo, mi sente?”. In quel momento mi sono reso conto che stavo tornando nel mondo, come una rinascita. E ho visto i volti delle persone che mi sono care. Mia figlia Chiara è stata eccezionale. Ha trent’anni, vive lontano da me e non ci vediamo tanto. Ma è venuta a Trento e ha preso il comando delle operazioni, ha tenuto il rapporto con i medici, mi ha aiutato, insieme a Camilla Baresani e a mio fratello Marco, a smaltire le risposte alle migliaia di messaggi e richieste che sono arrivati da tutto il mondo. Non credevo che tanta gente mi volesse bene. Ora Chiara mi ha detto che vuole lavorare con me. E questa gioia mi ripaga della paura e del dolore».
Ti sei chiesto se valga la pena?
«Io ho avuto la più grande fortuna di una vita: trasformare in lavoro la mia passione. Io rischio, ma per trovare un punto di vista unico, dal fondo di un lago ghiacciato o dall’alto di un elicottero da cui mi sporgo. Solo io posso vedere le cose in quel modo e raccontare con le immagini da questi spazi. Quando ci fu l’attentato a Falcone affittai un Cessna e scattai istantanee che raccontavano lo scenario, non solo il fatto. Dall’alto si capiscono cose che non si percepiscono da vicino. Per questo io amo la fotografia zenitale».
Ho visto la tua splendida mostra nel museo di Santa Giulia a Brescia e mi ha molto colpito la lettura che quelle immagini zenitali consentono di fatti che abbiamo visto solo ad altezza terra…
«Prendi le esequie delle vittime del terremoto di L’Aquila: 230 vittime, il funerale nel campo sportivo della Guardia di Finanza dell’Aquila. Era una foto clamorosa dal cielo, ma nessuno poteva volare, neanche le forze dell’ordine, per non disturbare la cerimonia. Noleggiai un elicottero. Il mio amico Maurizio Scarpelli, con il quale ho condiviso molte di queste follie, mi portò a tremila metri – una volta sola mi disse – e io realizzai quello scatto che nella geometria dell’allineamento perfetto delle bare raccontava, insieme, desolazione e dolore. Il mio amico sarebbe poi morto in Valle d’Aosta, qualche anno fa, in un incidente. Si fece seppellire con la tuta e gli stivali da pilota».
E com’è il mondo visto dall’alto?
«Si capiscono cose che non si vedono da vicino. Il grande Robert Capa, morto in guerra su una mina dopo aver scattato una fotografia, diceva che per vedere e capire bisogna andare in prima linea. Io mi sono convinto che non sia vero. La mia foto che vinse il premio World Press Photo, quella che dall’alto riprende gli immigrati su un barcone che guardano tutti in alto verso il mio obiettivo, non può essere che scattata dal cielo. Poi li ho cercati, quegli esseri umani, cinque anni dopo, per un progetto che si è chiamato “Where are you?”. E ne ho trovati alcuni che ho fotografato, finalmente integrati e sorridenti, ma sempre dall’alto. Il mondo si vede meglio, si esce dal frammento e si recupera una visione d’insieme. Ciò che manca a questo nostro tempo, così parcellizzato, incapace di leggere il senso delle cose e di uscire dal coriandolo dell’istante per recuperare la maestosità dello sguardo che non ha confini».
Si può dire che tu sei, al tempo stesso, fotoreporter e fotografo, paparazzo e artista?
«Fare il paparazzo mi ha insegnato a fare bene il fotoreporter e fare bene il fotoreporter mi ha insegnato a fare bene il fotografo. Io ho iniziato dalla gavetta e ho fatto il paparazzo, con gli appostamenti infiniti e quei teleobiettivi che pesano un quintale. Ma ho sempre cercato di farmi guidare da un’etica che saldasse quella professione e quella umana. Un infermiere di Bologna vendette alla mia agenzia, per un milione e mezzo, le foto dei corpi di Senna e Ratzenberger, i due piloti automobilistici morti a Imola. Dissi al direttore di Panorama, Andrea Monti, che non gli avrei dato le immagini, ma la notizia. E lui mi disse che era giusto così e mi face scrivere un editoriale con un titolo singolare per un fotografo: “Ecco perché non vi mostreremo le immagini”. Lo stesso feci con le fotografie di Lady Diana. I miei corrispondenti a Parigi scattarono delle istantanee in cui si vedeva ancora il suo corpo muoversi. Le ho distrutte tutte, tranne una in cui lei non c’è. Lo scoop si può fare, ma non a tutti i costi».
C’è una fotografia che ti dispiace di non essere riuscito a scattare?
«Sì, quella di papa Wojtyla in vacanza. Mi sono appostato per giorni ma poi mi hanno scoperto e hanno liberato i cani. Mi hanno portato in Questura e mi hanno chiesto di dove fossi. Ho risposto che ero di Firenze. Allora hanno telefonato ai loro colleghi lì per sapere che tipo fossi. Gli hanno replicato, ridendo: “Ma chi, Massimo? Fateci un favore, tenetelo!”».
Anche la fotografia rischia di essere giustiziata dal digitale?
«Come tutto quello che concerne la qualità. Come si può provare emozione nel vedere una foto sul minuscolo schermo di un cellulare? E come si può pensare che una foto scattata con lo smartphone possa avere la stessa qualità di quelle che, con tanta fatica, i miei colleghi ed io cerchiamo di produrre? Il futuro della comunicazione, dobbiamo avere fiducia, ritornerà a selezionare il bello dal brutto, il vero dal falso. Una borsa di Gucci e la sua copia non sono la stessa cosa».
Qual è la foto più bella che tu abbia mai visto?
«Io sono cresciuto alla scuola dei grandi fotografi della rivista “Epoca”. Attualità e bellezza, i due fari della mia vita. Il vero scopo della mia esistenza, e anche dei rischi che mi prendo, è solo uno, che però mi sembra grandissimo: raccontare agli altri. Per questo domani può essere sempre il giorno giusto. L’istantanea dei miei sogni non sono ancora riuscito a scattarla. Qualche giorno fa ho cercato di fotografare l’aldilà, ci sono andato vicino, ma non è stato possibile. Ed è meglio così».