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 2025  febbraio 02 Domenica calendario

L’Fbi, raccontata da Hollywood

«Clarice, il mondo è più bello se ci sei tu». Persino Hannibal Lecter, il serial killer cannibale del Silenzio degli innocenti, lasciava in pace l’Fbi, o per lo meno il volto più umano (e apprezzato) che il Federal Bureau of Investigation abbia offerto a Hollywood: quello dell’aspirante agente Clarice Starling, impersonata da Jodie Foster nel famoso thriller del 1991. Starling e il suo empatico capo Jack Crawford, responsabile dell’unità di scienze comportamentali a Quantico, in Virginia, sono soltanto due rappresentanti di quell’esercito di federali più o meno speciali che da novant’anni popolano il cinema e la letteratura americana. Le storie poliziesche sono più belle se c’è di mezzo il Bureau. 
Nel bene e nel male, ciascuno ha le sue facce preferite: tra i più gettonati Dana Scully e Fox Mulder della serie X-Files, Dale Cooper della saga di Twin Peaks, l’agente sotto copertura Donnie Brasco nell’omonimo film con Johnny Depp e Al Pacino. Noi siamo legati all’idealista Willem Dafoe e al pragmatico Gene Hackman di Mississippi Burning del 1988, bruciante storia che parla degli omicidi di attivisti per i diritti civili in uno Stato del Sud con la complicità della polizia del posto. 
Agenti che dipendono dal dipartimento di Giustizia a Washington contro corrotti potentati locali: una contrapposizione che aveva segnato la nascita del Bureau of Investigation già nei primi del Novecento, come ha raccontato Martin Scorsese nel recente Killer of the Flower Moon, una storia truce di affari, petrolio e sopraffazione ai danni dei nativi americani Osage in una valle dell’Oklahoma nel 1921. Naturalmente, in un comparto che oggi conta 40 mila effettivi dislocati in uffici in ogni angolo dell’Unione, con un budget da 10 miliardi di dollari e 200 tipologie di crimini su cui indagare, ci sono buoni e cattivi a tutti i livelli. 
Come nel romanzo Il poeta di Michael Connelly, dove il capo dipartimento Robert Backus alterna la competenza alla malvagità, ora difensore della giustizia ora serial killer. 
È il volto a volte sdoppiato dei G-Men: gli «uomini governativi» (le donne saranno ammesse soltanto nei primi anni Settanta) sono un’invenzione lessicale datata 1935, il titolo di un film che vede come protagonista James Cagney, l’angelo con la faccia sporca per eccellenza del cinema Usa, quando il patriarca del Federal Bureau of Investigation (l’ufficio sarà battezzato così proprio in quell’anno) J. Edgar Hoover spinge Hollywood, che allora aveva un debole per i gangster alla Dillinger, a spostare il cuore degli spettatori verso gli eroi senza macchia della polizia federale. 
Le macchie ci sono, in ogni epoca. Se il motto dell’Fbi è «Fidelity, Bravery, Integrity», oggi come ieri l’integrità non sempre fa rima con fedeltà. Fedeli alle leggi o ai governanti di turno? Oppressori o difensori? L’Fbi mette sotto controllo Martin Luther King, come del resto fece Robert Kennedy (Hoover nel 1964 definì pubblicamente il campione dei diritti civili «il più grande bugiardo del Paese»), fa pedinare John Lennon e altri artisti sospettati di «eversione». 
Ma è pur sempre uno dei suoi agenti speciali, Mark Felt, la misteriosa «Gola profonda» che alimenta lo scandalo Watergate e fa sprofondare il presidente Nixon, in quegli anni Settanta che furono così formativi, sottolinea l’Economist, per l’apprendista del potere Donald J. Trump.