La Stampa, 1 febbraio 2025
Intervista a Giuseppe Bruscolotti
Sedici stagioni di fila con la maglia del Napoli, l’emozione del primo storico scudetto nel 1986-87: se Diego Armando Maradona era il genio, Giuseppe Bruscolotti era il guerriero di quella squadra, così solido e imponente in area di rigore da essere ribattezzato «palo ’e fierro», palo di ferro. «Non fu un compagno a darmi quel soprannome, nacque tra i tifosi. Mi piaceva perché rispecchiava il mio gioco: ero duro, a volte ruvido, però mai cattivo. Parla la carriera, nessun mio avversario s’è fatto male».
Bruscolotti, ricorda il primo pallone?
«L’ho fabbricato io in casa, annodando le calze di mamma e nonna: avevo cinque o sei anni. Era morbido, per fortuna, i guai cominciarono con le partitelle in piazza: ogni sera qualcuno bussava per lamentarsi d’un vetro rotto».
Oggi i bambini non giocano più per strada...
«Peccato, era divertente e formativo, capitava di misurarsi con ragazzi molto più grandi. Non c’erano strutture, ma ci muoveva la passione: pur di avere un campetto tutto nostro, ci trasformavamo in piccoli operai per collaborare alla recinzione».
Infanzia a Sassano, collina salernitana, prima squadretta al paese e a dodici anni in Terza Categoria.
«Per tesserarmi falsificarono la data di nascita, non avevo l’età minima, ma il fisico mi aiutava a mascherare l’inganno. Incrociavo calciatori di trenta-quarant’anni, se non ti facevi rispettare eri finito».
Subito difensore?
«Sì, in tutti i ruoli. Qualche eccezione c’è stata, una volta a Contursi giocai addirittura ala sinistra: segnai anche due gol, ma la mia vocazione era star dietro».
Il Sorrento le aprì le porte della Serie C.
«Non ci credevo più, avevo fatto provini in mezza Italia senza superarne uno, anche alla Juventus con Italo Allodi: quando anni dopo mi ritrovò in Serie A, si ricordò e disse che era contento ce l’avessi fatta comunque. Ho un bel ricordo, persona vera, corretta: nel calcio, credetemi, ce ne sono pochi».
Quel campionato, all’epoca, era rovente...
«C’erano campi difficili, dove succedeva di tutto. Minacce, intimidazioni, aggressioni. Il mio battesimo a Brindisi, vincemmo al 90’ e fu un assedio: rientrammo a casa alle cinque del mattino dopo aver viaggiato con i vetri del pullman in frantumi».
Fu subito promosso, poi una stagione in B e la chiamata del Napoli...
«La mia unica maglia in Serie A: ho rifiutato offerte importanti e ne sono orgoglioso, lo scudetto mi ha ripagato di tutto».
Il capitano...
«Ho ceduto la fascia a Maradona, ma lui in pubblico mi chiamava così. Era un ragazzo d’oro, ho il rimpianto che nell’ultimo tratto della sua vita nessuno abbia saputo aiutarlo. Eravamo amici».
Davvero una volta che lei rimediò un trauma cranico in campo la raggiunse a casa per starle accanto?
«Alle cinque di mattina disse di aver fame e scoprì gli spaghetti aglio e olio».
Diego ne prendeva tante in campo...
«Era il prezzo della sua classe immensa. Ma noi le restituivamo a chi lo toccava».
A quei tempi, senza tv, i falli erano più diffusi e più brutti.
«Sapevamo anche come farli, oggi ne vedo di inutili e di ingenui. Ma tanto è cambiato tutto, nessuno marca più. E chi marca si distingue e fa la differenza, come Buongiorno».
Lei era il classico «duro»...
«Difendere era il mio mestiere. E la parola dice tutto. Non facevo toccare palla, in un modo o nell’altro, però la cattiveria l’ho sempre osteggiata. Ho smentito chi mi ha accusato di mirare alle caviglie, ma ancor prima lo ha smentito la mia carriera: poche espulsioni e avversari diretti sempre usciti con i loro piedi dal campo. Al massimo lagnandosi, ma quello ci sta».
I conti sospesi con Elkjaer sono diventati leggenda.
«Cominciò lui, a Verona, con una gomitata allo stomaco che mi tolse il fiato. Mi avvicinai e gli dissi “da questo momento aspettati di tutto” e al primo pallone spiovente lo colpii al ginocchio. E non è tutto: quando cadde, con la scusa di rincuorarlo, mimando una carezza, gli strizzai l’orecchio e chiesi se aveva capito. A Napoli, al ritorno, non giocò, e quando in un’altra occasione entrò dalla panchina chiesi a Ferrario di invertire le marcature. Lo presi in consegna io e non passò la metà campo».
Si narra che lo aspettò anche nel tunnel.
«Chiesi a Castellini di fare quello che chiamavamo blocco, o gabbia: fermarlo o rallentarne il passo, poi sarei arrivato io. Sì, a quei tempi capitavano anche le scazzottate nei sottopassi, ma anche quelle finivano lì. Elkjaer, però, capì tutto e si infilò in mezzo alla terna arbitrale».
Nello spogliatoio del Bernabeu, nel 1987, inseguì anche Leo Beenhakker, l’allenatore del Real Madrid.
«Ci aveva chiamati mafiosi, purtroppo non riuscii a raggiungerlo. E anche a Napoli rimase a distanza».
Spifferi di spogliatoi raccontano di uno schiaffo a Ramon Diaz, compagno di squadra, in realtà non da bulletto ma da fratello maggiore.
«Erano altri tempi: a volte una manata serviva per dare un indirizzo, come con i figli. Rischiavamo di retrocedere, gli chiesi di impegnarsi e lui rispose che non gli fregava. Era il mio Napoli, la mia gente: lo rifarei».
Lo ritrovò da avversario con la maglia della Fiorentina nella partita che vi consegnò lo scudetto.
«Ci fu ancora qualche scintilla, ma alla fine andò bene per tutti: noi vincemmo il campionato, loro si salvarono».
Quel giorno contribuì a scrivere una pagina di storia.
«Vincere nella mia terra, con la mia unica squadra, è stato meraviglioso. E mi ha risarcito di tante ingiustizie, la Nazionale su tutte: non pretendevo chissà cosa ma avrei meritato di vestirlo almeno una volta, l’azzurro. Non ero inferiore ad altri, invece è andata così: è l’unico rimpianto che ho».
Le manca il suo calcio?
«Se rispondo sì, mi prendono per nostalgico o, peggio, rincoglionito. Diciamo che non mi diverte quello di oggi: con tutti quei passaggini, con la costruzione dal basso, lo trovo noioso».