Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  gennaio 31 Venerdì calendario

Horro con lieto fine

Se la letteratura per ragazzi è un campo a sé, complesso e affascinante in ugual misura, nel quale avventurarsi con cautela e timore reverenziale, quello dell’horror per i più giovani è un territorio per lo più incognito, consigliato solo a esploratori più che esperti e guide certificate.
Tra questi scout dell’ignoto, il gran Mogol, la guida delle guide, il maestro indiscusso, è senz’altro R.L. Stine, che nel 1992, con La casa della morte, ha inaugurato la longeva (quando gli si chiede se sa a quanti volumi siamo arrivati ridacchia: «Ho smesso di tenere il conto») e fortunata serie Piccoli brividi (pubblicati da Mondadori; gli ultimi due, Fear Street, escono il 4 febbraio); per milioni di giovani lettori un ingresso nel genere e principale strumento d’evasione trasversale ai cambiamenti globali e alle evoluzioni planetarie degli ultimi trent’anni.
Molto dell’immaginario presente ha pescato dal mondo inventato da Stine, popolato da vicini di casa fantasma e macchine fotografiche infernali, senza che nulla della contemporaneità venisse mai a mancare. Stine, che oggi ha ottantun anni e non accenna a voler smettere di scrivere, sa tenere il polso del tempo, adattarsi al presente e fornire ai suoi lettori un terrore puro e credibile, in qualsiasi epoca e decennio. Lo fa osservando i suoi nipoti e rispondendo alle esigenze del suo pubblico, senza timore di esagerare.
La paura è cambiata?
«I ragazzi hanno paura delle stesse cose di quando ho cominciato a pensare a Piccoli brividi, che dopotutto si fondano sulle paure primarie, primordiali, immediate».
Però il mondo è cambiato.
«Profondamente. E penso che ci siano molte più ragioni di avere paura al di fuori dei libri. È per questo che la letteratura per ragazzi è fondamentale: hanno bisogno di evadere, di avere un piano di irrealtà nel quale rifugiarsi quando tutto diventa troppo difficile. A volte c’è bisogno di un lieto fine, e tutti i miei libri ne hanno uno».
Proprio tutti?
«Una volta mi è capitato di voler provare a dare un finale diverso a uno dei miei romanzi. La protagonista, anziché scampare al terrore, veniva portata via. Non può immaginare le valanghe di proteste che ho ricevuto dai lettori. Non potevano accettare che qualcosa che per loro è, comunque, uno strumento di evasione, si rivelasse invece una fonte di angoscia. Ho scritto un sequel per rimediare a questa situazione incresciosa».
Hanno ragione?
«Certo. Sono lettori, hanno sempre ragione. Il mio mondo è costruito per loro. E poi sono ragazzi, quasi bambini: hanno tutta la vita per essere angosciati, la loro età è giusto che la vivano come più gli piace».
Le scrivono spesso?
«Continuamente. A volte solo per esprimere la loro gratitudine, altre per affetto, altre perché sono costretti dai loro insegnanti. Una volta una lettrice mi ha scritto che sono “Il suo secondo scrittore preferito”, non ho avuto il coraggio di chiedere chi fosse il primo. È una cosa che mi piace: mi dice che i miei romanzi lasciano un ricordo».
Hanno una morale?
«No. Non ne hanno mai avuta una. L’unica cosa che i Piccoli brividi insegnano è a scappare nel momento giusto. La semplicità di certa letteratura sta proprio nel fornire uno strumento di evasione pura, di puro intrattenimento. Non sempre occorre insegnare qualcosa, soprattutto quando si cerca di forzare un insegnamento in un racconto che sta bene com’è».
La pensa come Stephen King.
«Una volta mi hanno definito il “primo reggiseno” di King».
In che senso?
«I miei libri sarebbero gli strumenti che allenano i ragazzi all’orrore serio, che è la sua materia, del quale fruiranno da adulti. Io gli insegno a portare il peso, lui li carica».
Glielo ha detto?
«Sì. Mi ha semplicemente risposto che lo sapeva già, senza commentare oltre. Immagino che ci sia un fondo di verità in questa definizione, io personalmente la trovo divertente».
Non sente il peso della responsabilità?
«Perché dovrei? Adoro il mio lavoro ed è anche relativamente semplice. Devo solamente stare attento a evolvere con il tempo, a seguire il corso degli anni e dei cambiamenti. Le generazioni alle quali mi rivolgo sono quelle che cambiano più in fretta, e io devo mettercela tutta per non farmi prendere in contropiede».
Non teme passi falsi?
«Eccome. Viviamo in un’epoca di ipersensibilità, a volte giustificata, altre volte un po’ incomprensibile. Specialmente quando si trattano temi vicini alle generazioni più giovani, è molto facile che qualcuno si offenda. Per questo il controllo editoriale è sempre più attento e minuzioso. Non dovrei dirlo, ma a volte è persino un po’ maniacale ed entra talmente tanto nel dettaglio e nel timore di un fraintendimento da risultare ridicolo».
Ad esempio?
«Non posso più usare la parola “pazzo”. Nemmeno per dire che qualcosa è “da pazzi”. Nemmeno metaforicamente. Qualcuno potrebbe offendersi. Da un certo punto di vista è vero: qualcuno potrebbe offendersi, ma è anche una questione di comprensione spontanea del testo ed elasticità mentale. Credo che tra il buon senso e la paranoia esistano decine di diverse occorrenze: se smettiamo di prenderle in considerazione tutte assieme non ne usciamo vivi».
La letteratura ne risente?
«Un certo tipo di letteratura può risentirne sì. I Piccoli brividi hanno la necessità di essere almeno un po’ perturbanti, altrimenti non farebbero a dovere il proprio mestiere. Naturalmente questo effetto va ricercato mettendo protagonisti in situazioni destabilizzanti, e non utilizzando strumenti offensivi».
Le piaceva essere turbato?
«Quando avevo dieci anni una bibliotecaria mi ha portato davanti a uno scaffale di romanzi sci-fi di Ray Bradbury. Un momento fondativo, che accosto soltanto alla scoperta dei fumetti. Non erano letture prettamente per ragazzi, e questo le rendeva più affascinanti. È il mio turbamento primigenio».
Un ottimo inizio…
«E porterà a un lieto fine, che è quello che ci si aspetta». —