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 2025  gennaio 30 Giovedì calendario

Reportage da Panana

I motori della chiusa di Miraflores riprendono a cingolare alle 14.07, dopo la pausa mattutina imposta dal caldo umido, facendo gorgogliare gli impianti dell’ultimo “casello” di quella straordinaria autostrada d’acqua chiamata Canale di Panama. La “scorciatoia” fra Atlantico e Pacifico voluta da Theodore Roosevelt per evitare la circumnavigazione del continente sudamericano e ridurre a 10 ore un viaggio di settimane. Terminata nel 1914, è lunga 81 chilometri, percorsi annualmente da 14 mila navi – il 5 per cento del commercio marittimo globale. Ma è sempre più congestionato per colpa della siccità che ha abbassato il livello dei laghi interni, nonostante i lavori di raddoppio cui ha partecipato pure l’italiana Impregilo. Il pedaggio costa fra 300-900mila dollari, a secondo della stazza.
Nonostante l’afa, gli uomini della Quing Feng Ling battente bandiera cinese, un carico di minerali scavati in Guatemala nella pancia blu, lavorano in fretta. E chissà se sanno che il nuovo presidente americano Donald Trump ha dichiarato guerra agli intessi commerciali del loro Paese. «Il canale è stato stupidamente consegnato a Panama dopo che avevamo speso più soldi di quanti ne avessimo mai investiti in un progetto» ha detto durante il discorso d’insediamento: «Ora lo gestisce la Cina, ma noi lo avevamo dato a Panama e ora ce lo riprenderemo». Per lui quel capolavoro d’ingegneria idraulica realizzato da George Washington Goethals è «in mani cinesi», le navi americane «soggette a pedaggi illegali». Concetto ribadito ora pure sul social, Truth: «Panama tenta di eliminare il 64 per cento dei cartelli in cinese lungo il Canale per negare che Pechino lo controlla», ha scritto, pubblicando una foto della pubblicità di Bank of China con nave in movimento e la frase One World Canal-One Global Bank in spagnolo e cinese.
«Non diventeremo la 51esima stella. Non vogliamo più avere a che fare coi gringos imperialisti» tuona Saúl Méndez, leader di Suntracs, sindacato dei lavoratori edili ed ex candidato alla Presidenza per il Frente Amplio por la Democracia. Con lui davanti all’edificio dell’Amministrazione del Canale di Panama ci sono meno di cento persone. Che bruciano le effigi di Trump per protesta contro le sue affermazioni, contestando l’imminente visita del nuovo segretario di Stato Marco Rubio, nei prossimi giorni. Il primo latino alla guida della diplomazia Usa, inaugura irritualmente la sua agenda, partendo dal Sudamerica. Dopo Panama sarà infatti in Costarica, El Salvador, Guatemala e Repubblica domenicana, chiaro segnale di rinnovato interesse per questa parte di mondo. «Non c’è nulla da negoziare» dice il leader della sinistra panamense: «Vogliamo rispetto per trattati, sovranità del Paese e diritto all’autodeterminazione». Il malumore è diffuso anche fra chi non protesta. Lo confermano le tante bandiere panamensi apparse subito dopo l’annuncio della visita. D’altronde è ancora fresca la memoria dell’operazione “Giusta Causa” voluta da George H.W. Bush nel 1989: lo sbarco dei marines per arrestare l’ex alleato Manuel Noriega datosi al narcotraffico con Pablo Escobar, che provocò 205 morti.
Panama, 4,5 milioni di abitanti, priva di esercito e fortemente dipendente dal commercio e dagli investimenti stranieri, è dunque dilaniata nell’ennesima crisi d’identità. Da un lato l’americanismo che la caratterizza al punto da aver ancorato la moneta locale, il Balboa (dal nome del conquistadores Vasco Núñez de Balboa) al dollaro e di aver tappezzato di pubblicità Nike, Coca-Cola, e McDonald’s tanto grattacieli come il celebre El Tornillo – la Torre a spirale F&F, alta 242 metri – quanto le brutte case popolari color pistacchio di Avenida Herrera. Dall’altra, il nazionalismo che l’ha spinta più volte a ribellarsi alla nazione cui deve l’indipendenza. Proprio gli Stati Uniti, già intenzionati a creare qui una via commerciale alternativa, favorirono nel 1903 il distacco dalla Colombia che aveva rifiutato di concedere la gestione dell’istmo a un consorzio americano. Negli anni 50 e 60, l’insofferenza per la presenza americana, padrona di un perimetro largo 8 chilometri lungo tutto il Canale, si tradusse in rivolte: la più tragica il 9 gennaio 1964, quando studenti panamensi tentarono di piantare le loro bandiere nella “zona americana” e vennero aggrediti. Morirono 20 persone, ricordati come “martiri” in una festività che ha trasformato l’antiamericanismo in collante nazionale. La crisi rientrò solo nel 1979: quando, dopo un lungo lavoro diplomatico, Jimmy Carter sottoscrisse con l’allora leader militare del paese Omar Torrijos il trattato oggi criticato da Trump. Prevedendo, oltre alla neutralità dell’area e il diritto statunitense a difenderlo il trasferimento del Canale al governo di Panama poi finalizzato nel 1999. Con buona pace del fatto che nel frattempo, nel 1996, era stato stipulato un accordo per far gestire i porti di Balboa e Cristóbal – rispettivamente su Pacifico e Atlantico – a CK Hutchison Holdings del celebre imprenditore Li Ka-shing: conglomerato con sede nella Hong Kong passata l’anno dopo (1997) sotto dominio cinese. Pechino – i cui trasporti rappresentano oggi il 21,4 per cento del totale di merci in transito – ha ampiamente investito nell’area. Tanto che nel 2017 Panama ha rotto i legami diplomatici con Taiwan e stabilito relazioni formali con la Cina: primo paese latinoamericano ad aderire alla sua Belt and Road Initiative, l’iniziativa globale di infrastrutture e investimenti. Nel frattempo l’ambasciatore Wei Qiang ha imbastito una raffinata operazione di soft power aprendo il primo Istituto Confucio nel paese, sovvenzionando una ferrovia e sponsorizzando corsi per giornalisti.
A gestire il passaggio artificiale è la Panama Canal Authority, agenzia panamense, che, lo ha sottolineato il presidente José Raúl Mulino Quintero pure durante il recente viaggio italiano, «non ha un solo dipendente cinese». L’interesse di Trump sembra dunque essere squisitamente preventivo: «Va inquadrato all’interno di un conflitto geopolitico con la Cina. Sta perseguendo un obiettivo strategico, tanto a Panama quanto in Groenlandia» riflette Ryan Berg delCentre for Strategic Studies di Washington: «Nel caso di una guerra di forniture, il Dragone potrebbe spingere la società di Hong Kong e fornire informazioni strategiche sulle navi che attraversano il canale». Un risiko rischioso, per Manuel Orozco, del think tank Dialogo Interamericano: «Potrebbe rompere gli equilibri della regione. Il Trattato Torrijos- Carter del 1977 è da tempo incorporato nel diritto internazionale». Notando che il viaggio di Rubio «riflette anche altre priorità della politica estera Usa. Oltre all’influenza cinese, c’è la questione dei clandestini». Gli attacchi di Trump mirati dunque non solo a ottenere disimpegno da Pechino: ma anche un migliore controllo dei flussi migranti lungo la sua pericolosissima giungla del Darien Gap. Lo conferma il Wall Street Journal: per disinnescare le tensioni con l’amministrazione Usa, il governo conservatore panamense sta preparando una serie di misure per frenare il flusso di migranti e droga verso gli Stati Uniti, lavorando allo stesso tempo attivamente per attrarre investimenti americani e controbilanciare così quelli cinesi. Delle tattiche aggressive di Trump, che stanno scuotendo le monete di alleati tradizionali (il peso messicano giù del 2 per cento, quello colombiano dell’1,5) si discute a margine del Forum Internazionale dell’America Latina e Caraibi tenuto proprio qui a Panama. «C’è molto allarme» conferma un diplomatico regionale: «Sembra di essere tornati al 1897 quando l’allora presidente McKinley invase Cuba e Filippine».
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