La Stampa, 29 gennaio 2025
I riflettori si spostano lontano dal caso Almasri
L’intervento della Procura di Roma nel caso della scarcerazione del libico Osama Almasri provoca la più classica eterogenesi dei fini: alza un polverone anziché accelerare il chiarimento; mette il governo nella posizione di vittima anziché spingerlo ad assumersi la responsabilità dell’accaduto. Il dibattito sugli eventi trascorsi tra l’arresto di Almasri a Milano e il suo rimpatrio a Tripoli con aereo di Stato è diventato da ieri un’altra cosa: una discussione sugli intenti della magistratura e sui suoi presunti istinti vendicativi, denunciati in coro dall’intera maggioranza e messi all’indice da Giorgia Meloni in un severo video dove il denunciante, l’avvocato Luigi Li Gotti, è indicato come «ex-politico di sinistra, amico di Romano Prodi, conosciuto per aver difeso mafiosi del calibro di Buscetta e Brusca».Nell’arco di poche ore ogni domanda intorno al caso è cambiata. I fatti non interessano più. Ci si chiede solo chi e perché ha agito per colpire la premier e i massimi vertici della sicurezza nazionale: la sinistra, il giro del Professore tornato in scena di recente, la magistratura furiosa per la separazione delle carriere, il Procuratore Francesco Lo Voi in cerca di rivincita dopo il fallimento del processo a Salvini? Qual è il complotto, qual è il retroscena? La scena, i fatti, sono già dimenticati. Così come sarà presto accantonato il vero tema di questa vicenda e di altre precedenti, e cioè l’obbligo del potere di rispondere in modo credibile e trasparente alla pubblica opinione su decisioni di questa portata.L’indagine è piombata su Palazzo Chigi alla vigilia di due appuntamenti importanti, in cui il governo avrebbe dovuto ricostruire con precisione gli avvenimenti, ben oltre le confuse giustificazioni date finora sulla scarcerazione di un torturatore conclamato, ricercato dalla Corte penale internazionale sulla base di accuse molto solide e di decine di testimonianze. Il ministro Matteo Piantedosi in Parlamento, il ministro Carlo Nordio al Copasir. Numerose le zone d’ombra da spiegare, a partire dalla mancata convalida dell’arresto da parte del Guardasigilli, seppure sollecitato dai magistrati, per finire ai «motivi di sicurezza nazionale» che hanno indotto il Viminale a rimpatriarlo di corsa per riconsegnarlo ai suoi miliziani festanti, nelle scene incredibili di esultanza che abbiamo visto in tv vergognandoci per quella bandiera italiana sull’aereo nello sfondo.Colpa di un cavillo, colpa dei giudici, colpa della Corte Penale o forse un suo artifizio per costringere l’Italia al fermo di un ricercato scomodissimo che nessun Paese europeo voleva intestarsi. Queste, finora, le giustificazioni della maggioranza, della premier (ripetute anche ieri nel video) e dell’esecutivo, alle quali hanno risposto per le rime tutti i diretti interessati. Sarebbe stato interesse di tutti –soprattutto dei cittadini – che il «momento della verità» previsto per oggi si svolgesse come previsto dalle regole della democrazia, nelle corrette sedi politiche e di vigilanza. Non succederà. Le informative di Piantedosi e Nordio sono state cancellate. Le regole del gioco giudiziario impongono il silenzio in attesa che la Procura trasmetta gli atti al tribunale dei ministri e questo decida di ascoltare gli interessati. Il giorno della verità è rinviato sine die.Insomma, nell’arco di poche ore non solo il dibattito ha cambiato di segno, ma anche il doveroso chiarimento delle istituzioni è sfumato nella nebbia. L’eterogenesi dei fini è completa. Ammesso che il fine del denunciante e di chi gli ha dato ascolto fosse quello di colpire il governo ai suoi massimi vertici. Per ora, in realtà, quell’avviso di indagine ha colpito soprattutto l’opposizione, che per oggi aveva programmato una giornata di mobilitazione a tutto campo, organizzando anche una conferenza stampa con l’intervento di alcune vittime di Almasri. Lo spaesamento di Elly Schlein, Giuseppe Conte e tutti gli altri, dopo la notizia del procedimento giudiziario, era palpabile. Oltre al danno evidente, pure la beffa. A sera il Tg1 ha intervistato l’autore dell’esposto che ha «obbligato» i giudici ad aprire l’indagine, l’avvocato Li Gotti. È uno che ha difeso l’assassino di Giovanni Falcone, di Rocco Chinnici e del povero piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito per vendetta e sciolto nell’acido. Ha spiegato la sua denuncia contro Meloni, Piantedosi, Nordio e Mantovano dichiarandosi campione di cause umanitarie: «Non mi andava di essere preso in giro, ritenevo un fatto gravissimo che venisse scarcerato un uomo che secondo l’accusa si era macchiato anche di assassinio». Si, vabbè