il Giornale, 28 gennaio 2025
Trump porta i clandestini in Salvador
La strategia si chiama «flood the zone», inondare l’area. L’ha messa a punto Stephen Miller, il vice capo dello staff della Casa Bianca, l’ideologo delle politiche anti immigrazione anche durante il primo mandato di Donald Trump. Tradotto, significa mettere in atto un fuoco di sbarramento di ordini e azioni esecutive tale da disorientare gli avversari politici e i media progressisti. Troppi e tutti insieme i colpi da parare. Va letta così la valanga di provvedimenti firmati dal presidente e la loro rapidissima implementazione in questa prima settimana della nuova Amministrazione.
Due, finora, gli unici intoppi. Il primo, ampiamente previsto e anzi voluto: l’alt alla fine della birthright citizenship, lo ius soli, imposto da un giudice federale di Seattle che ne ha contestato la costituzionalità. L’obiettivo della Casa Bianca (ma ci vorrà tempo) è arrivare fino al giudizio della Corte Suprema a maggioranza conservatrice, che potrebbe fornire una nuova e favorevole interpretazione del Quattordicesimo emendamento. Il secondo si è consumato nel giro di poche ore e si è tradotto in un boomerang per il suo autore e in un altro successo per Trump. Il presidente colombiano, il progressista Gustavo Petro, dopo avere vietato l’atterraggio a due aerei militari Usa che stavano rimpatriando degli immigrati irregolari, lamentando le condizioni inumane della deportazione, ha dovuto fare rapidamente marcia indietro di fronte alle misure punitive messe prontamente in atto dalla Casa Bianca: dazi immediati del 25%, stop ai visti, sanzioni a banche e settore finanziario. La ritirata di Petro, che ha fatto la sua mossa a uso e consumo dell’opinione pubblica interna, ma mal calcolando la reazione di Washington (la Colombia rimane pur sempre il principale alleato Usa nella regione), ha consentito a Trump una vittoria facile, ma dalle implicazioni profonde nella regione. A conclusione dello scontro, domenica sera, la Casa Bianca diffondeva un comunicato nel quale annunciava che, dopo che il presidente colombiano aveva accettato «tutti i termini» imposti, i dazi e le sanzioni venivano sospesi e «tenuti di riserva», mentre lo stop ai visti sarebbe rimasto in vigore fino all’atterraggio in Colombia del primo aereo carico di deportati. «Gli eventi di oggi rendono chiaro al mondo che l’America è di nuovo rispettata», affermava la nota. Per salvare almeno parzialmente la faccia, Petro ha inviato due aerei governativi per prelevare i migranti espulsi. Peraltro, è emerso che le autorità colombiane avevano concordato con quelle americane l’arrivo degli aerei militari.
Altri intoppi potrebbero giungere da quei Paesi, come il Venezuela, che rifiutano i rimpatri e non temono rappresaglie, essendo già nella lista nera di Washington. Anche in questo caso, la Casa Bianca sembra però avere una soluzione.
È la Cbs News, tra gli altri, a rivelare che l’Amministrazione Trump sta mettendo a punto con El Salvador un accordo che consentirebbe il rimpatrio in quel Paese anche dei migranti con diversa nazionalità. Un esplicito richiamo all’accordo con l’Albania siglato dal governo Meloni. Ai migranti verrebbe così impedito di richiedere asilo negli Stati Uniti, ma verrebbero espulsi con l’ordine di cercare asilo nel Salvador, designato come Safe Third Country, Paese terzo sicuro. L’accordo era stato già pensato ai tempi della prima Amministrazione Trump, ma non era mai stato implementato e alla fine cancellato da Biden. Non è un caso che tra le prime telefonate con leader stranieri fatte da Trump ci sia stata, giovedì scorso, proprio quella con il presidente salvadoregno Nayib Bukele. I due leader, ha riferito la Casa Bianca, hanno discusso di come «lavorare insieme per fermare l’immigrazione illegale».