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 2025  gennaio 28 Martedì calendario

Xochitl Gonzales: «Una guerra contro i poveri»


Edgar Lawrence Doctorow immaginava le grandi città americane come un disegno intricato, di macchie e correnti che si sovrappongono e si intrecciano. Sono le etnie che compongono il substrato sociale e culturale delle aree urbane e che, tutte assieme, concorrono a disegnare ciò che, comunemente, chiamiamo America.La romanziera Xochitl Gonzales è nata a New York, ma è portoricana, e come tutti coloro che condividono con lei la provenienza, ne va molto fiera. Da decenni, migliaia di portoricani che vivono negli Stati Uniti continentali partecipano alla causa e alla lotta della loro isola per affrancarsi da un sistema di controllo post-colonialista che la vuole ridotta a provincia dell’impero, tormentata dagli uragani senza sostegno da parte del governo statunitense e denigrata al punto di definire Porto Rico «isola di sporcizia galleggante» – come ha fatto il comico trumpiano Tony Hitchcliff durante un comizio elettorale.Questa lotta emerge in Olga muore sognando (in Italia per Fazi e la traduzione di Giuseppina Oneto), il più recente romanzo di Gonzales che mette in commedia la cocente necessità di preservare un’identità sempre più diluita; persa tra le macchie che compongono l’America.Da portoricana, come vede la nuova amministrazione Trump?«Sono ancora devastata dal risultato delle elezioni. Ma sto cercando di convertire questo mio stato d’animo in energia creativa che possa aiutare tutti noi a elaborare ciò che accadrà nei prossimi quattro anni. Il risultato non mi piace, ma è frutto di una decisione popolare. Ora bisogna capire quali sono stati i fattori che hanno portato alla decisione della maggioranza di eleggere una persona tanto pericolosa per le nostre istituzioni e le nostre libertà personali».Chi ne farà le spese?«I poveri. La storia ci ha insegnato che la politica è un’altalena, però, e questa amministrazione si dimostrerà così corrotta e così vantaggiosa per i miliardari e dannosa per i lavoratori, che finché potremo contare sulla democrazia, avremo i mezzi per aggiustare le cose. Se si pensa a quanti soldi sono stati investiti per far pendere l’ago della bilancia a favore di Trump, pur avendo metà del Paese a favore di Harris, è chiaro che non ci vorrà molto prima che gli elettori aprano gli occhi».Tra chi lo ha sostenuto ci sono molti portoricani…«Porto Rico politicamente è sempre stato tagliato fuori, denigrato dal governo. E ora quasi dieci milioni di portoricani, cioè circa due terzi della popolazione, vivono negli Stati Uniti continentali, che per loro rappresentano la libertà, e questo sentimento porta a un rifiuto dell’istituzione. Trump rappresenta una risposta radicale a ciò che per molti c’è di sbagliato nel governo. Un cambiamento».È il sogno americano?«Ci sono due Americhe. C’è la “Terra della libertà” e c’è il “Sogno americano”. Il sogno è sempre un sogno capitalistico. Però è un sogno che sta diventando sempre più elusivo per tutti. Le opportunità che ho avuto da giovane laureata venticinque anni fa sono quasi impossibili ora: avere un appartamento, avviare una piccola impresa. C’è stata la recessione, c’è stato Citizens United. Abbiamo concesso priorità alla libertà di fare soldi rispetto a qualsiasi altra libertà. Ma il sogno per molti persiste. Gli americani, specialmente in nuovi americani, vogliono ancora sperare nelle loro aspirazioni materiali».E chi è rimasto sull’isola?«Molti si trovano a vivere combattendo continuamente contro una situazione politica coloniale e contro l’apatia di chi invece ha smesso di preoccuparsi del destino di Porto Rico dagli Stati Uniti continentali. Il governo degli Stati Uniti detiene il “vero” potere politico, ma qualunque sia il futuro dell’isola, sarà l’isola a decidere».Lo crede davvero?«Assolutamente. Molto è già successo e molto può ancora accadere a sostegno della lotta per il riconoscimento e l’indipendenza formale dell’isola. La maggior parte dell’azione passa dall’informazione: occorre rimanere aggiornati e non dimenticarci di chi è rimasto a casa, specialmente nei momenti peggiori, penso ad esempio agli uragani, che hanno messo in luce quanto in realtà al governo centrale importi poco dell’incolumità dell’isola. La colonia statunitense di Porto Rico – la “colonia più antica del mondo” – è estremamente vulnerabile, non solo a uragani e terremoti, ma anche a una ricostruzione del tutto inefficiente».È una strategia politica?«Certo. È un gesto deliberato per continuare a trarre profitto dallo sfollamento della popolazione locale e dalla disponibilità di immobili a buon mercato. Le grandi imprese offrono briciole di sostegno per mantenere attivo lo stato d’emergenza e ottenere in cambio un vantaggio economico senza concorrenza».Ne scrive anche in Olga muore sognando«Non a caso. Cerco di tracciare un parallelo efficace con il governo statunitense, forse cerco di mettere in luce una certa indolenza che attanaglia i portoricani che vivono nel continente».Il futuro è nelle mani degli artisti?«Al cento percento. Le storie ci salveranno. L’arte ci salverà. Soprattutto in quest’epoca di intelligenza artificiale. Ma il processo di creazione artistica deve risiedere in una profonda onestà emotiva e autenticità che spesso finisce per scontrarsi con un sistema ingiusto o complicare una “verità” sociale che potrebbe essere più dannosa che liberatoria. Non si fa arte pericolosa per ispirare compiacenza o per romanticizzare il martirio. Si fa per consolidare il futuro».Quanto è importante scendere in strada e protestare?«È difficile dare un valore assoluto alla protesta, ma ovviamente è uno degli strumenti più potenti per esercitare collettivamente la libertà di parola. Occorrerebbe trovare un equilibrio tra la protesta e la partecipazione personale: scrivere al proprio rappresentante locale, esprimere le proprie preoccupazioni, candidarsi, discutere con i propri cari e con le persone della comunità. Bisogna organizzare ed esercitare i propri diritti, tenendo a mente che è più efficace iniziare in piccolo e poi espandersi».