Corriere della Sera, 28 gennaio 2025
Sinner: «Posso fare ancora meglio»
MELBOURNE È più intenso il dolore di una sconfitta o la gioia per una vittoria, Jannik? Riflette un attimo, come di fronte a tutte le domande che non implichino una replica automatica e interiorizzata, tipo certe risposte terra-aria riservate a Sasha Zverev nella notte di Melbourne in cui Jannik Sinner è sembrato gigantesco (ieri vincitore e sconfitto hanno volato insieme dall’Australia a Dubai). Sospira: «Il dolore quando perdo è più forte perché noi esseri umani siamo maggiormente attaccati alle cose che non abbiamo e ci sfuggono, piuttosto a ciò che abbiamo. È un nostro difetto».
Ricci rossi che contrastano con il blu del lago di Albert Park, al centro del circuito di Formula 1. In cielo si addensano nuvoloni neri: pioverà. Il campione è allegro, stropicciato da una notte insonne però finalmente felice con il suo secondo trofeo dell’Australian Open in braccio. L’appuntamento è poche ore dopo che è andato a letto. Le ultime foto ricordo, l’incontro con un bambino (italiano) sorteggiato al locale tennis club in rappresentanza di tutti i piccoli tifosi del mondo, che in Jannik Sinner vedono un punto di riferimento, un modello da imitare, un adulto alla cui serietà sul lavoro provare, un giorno, ad avvicinarsi. Eccolo, il padrone italiano del tennis mondiale. Ha festeggiato il trionfo di Melbourne, terzo titolo Slam della carriera a 23 anni? Certamente sì. Alla sua maniera. Jim Courier, che qui ha vinto due volte, aveva l’abitudine di un tuffo nel fiume Yarra. Ma l’eccentricità non è tra i talenti del ragazzo dell’Alto Adige, che non è certo di voler rispettare l’impegno di domani al Quirinale («Boh, devo decidere…»). Jannik, in linea con il suo modo di essere, ha scelto una celebrazione di basso profilo. Partiamo da qui.
Ha fatto le ore piccole?
«Ma no, niente di esagerato né speciale. Una piccola festa con gli amici, mio fratello che vedo poco e il team che ormai è una seconda famiglia. Momenti semplici da condividere dopo due settimane caotiche. Ci siamo riuniti tra di noi per una cenetta: abbiamo trovato il nostro tempo e il nostro spazio».
Non ha voglia di vacanze?
«Ho voglia del mio piccolo paese. Il mio lavoro qui a Melbourne è finito. Ho vinto un torneo che per me significa molto perché a Melbourne mi sono sempre successe belle cose dentro e fuori dal campo. Vincere richiede un sacco di lavoro. Vincere due volte ne richiede di più».
L’Australia è speciale anche perché è la terra di coach Darren Cahill, che a fine anno si ritira.
«Il coaching di Darren comincia in campo, ma poi esce anche fuori, nella vita. Con lui vado d’accordo perché capisce il suo giocatore, credo che ci sia riuscito anche con Hewitt, Agassi e Halep. Insieme a Darren imparo molto. Con Simone Vagnozzi c’è un rapporto speciale: si rispettano molto, coprono aree diverse del mio tennis. Insieme, sono formidabili. Se riuscirò a convincere Cahill a rimanere? Eh, chi lo sa, lo scopriremo in futuro. Di certo ci tenevo a vincere a Melbourne anche per lui».
C’è differenza tra il primo e il secondo Australian Open?
«Moltissima. Qui, nel 2024, ho capito di cosa sono davvero capace e ho tirato un sospiro di sollievo. Tutti mi chiamavano predestinato ma per me esiste una sola forma di predestinazione: al lavoro. I risultati non sono mai scontati. Quest’anno mi sono goduto di più la vittoria, però ogni Slam ha la sua storia e le sue difficoltà».
L’obiettivo diventa Wimbledon? Vincere sull’erba sarebbe la consacrazione.
«Di certo voglio diventare un tennista completo, non bravo su una sola superficie, il veloce. Certo questa è la mia dimensione, su terra e erba devo migliorare. E mi impegnerò a fondo per riuscirci. A me del tennis piace proprio questo: capire come e dove posso fare progressi, imparare, evolvermi. Sulla terra devo muovermi meglio, l’erba per le sue caratteristiche richiede un tennis particolare che devo ancora approfondire: ci ho giocato poco. L’obiettivo è diventare un tennista all around, non uno specialista del cemento».
Chiarissimo. E al Grande Slam della carriera o al Grande Slam assoluto, quello di Budge e Laver, ci pensa?
«Uh, che domanda difficile. Adesso proprio no. È così lontano. Però ho ben presente che sia a Parigi che a Londra sono già arrivato in semifinale. Diciamo che per ora sono contento con gli Slam che ho».
L’anno scorso colpì il discorso con cui ringraziava i suoi genitori. Quest’anno le parole d’incoraggiamento a Zverev sconfitto hanno fatto il giro del mondo.
«Non mi sembra di aver fatto nulla di particolare. Zverev l’ho visto triste e commosso: ho cercato di dargli un piccolo conforto. Non è facile perdere una finale Slam. Sasha un grande titolo se lo merita più di tutti e ha gli strumenti per riuscirci. I suoi sacrifici sono i miei».
A Zverev una spettatrice ha gridato «l’Australia crede in Olya e Brenda», le due ex che lo accusano di molestie: ha sentito?
«Mi sono accorto ma non ho capito cosa stava gridando... Ci sono cose che non si possono controllare, non credo sia stato un momento facile per Sasha».
Mamma e papà li ha sentiti? Nel 2024 raccontò che Siglinde la liquidò in fretta perché aveva da fare.
«L’ho sentita, una cosa veloce: volevo controllare che a Sesto fosse tutto okay».
Non ha voglia di ritagliare un po’ più di tempo per sé, nell’esistenza frenetica che conduce? Intanto ha rinunciato a Rotterdam, dove avrebbe difeso il titolo.
«Il mio corpo ha bisogno di tempo per recuperare. Mi piacerebbe avere più libertà però io mi conosco, per me è tutto o niente: se lavoro mi dedico al tennis al cento per cento. Piuttosto preferisco prendermi un giorno in più di pausa perché quando ricomincio non mi fermo più. Durante la stagione vedremo se sarà possibile inserire qualche giorno off in più».
Dove è diretto, Jannik?
«A casa».