Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  gennaio 28 Martedì calendario

Umberto Tozzi racconta la sua «Ti amo»


«Ti amo»: il luogo più frequentato dalla canzone. Umberto Tozzi lo ripete, cori compresi, per 72 volte nella canzone che esplose nel 1977 e ne fece una star da esportazione.
Fu voluto questo schiaffo in faccia alla tradizione cantautorale del testo poetico?«Ci voleva coraggio... Con Giancarlo Bigazzi, che scriveva le canzoni con me, ci eravamo posti il problema. Quella struttura era qualcosa fuori dalla moda che andava a fine anni Settanta, ma la mia cultura musicale nasce dai Beatles: la parola deve suonare».
È vero che «Ti amo» ha rischiato di non diventare un singolo?«Il grande Alfredo Cerruti, allora direttore artistico della mia casa discografica, era innamorato di “Se tu mi aiuterai”. Spinsi con Bigazzi per avere “Ti amo” come singolo: “non esiste che si faccia quell’altra” dissi. Passato un mese dall’uscita andai in vacanza a trovare i miei sul Gargano, mio papà era di lì. Chiamai Cerruti da un telefono a gettone, me lo passarono. “Come va?”. E lui “Umbe’... e come vuoi che vada? Ti avevo consigliato Se tu mi aiuterai...”. Mi prese un infarto, pensai di aver toppato. Lui si mise a ridere: “Vendiamo 40 mila copie al giorno!”».
La vedo commosso al ricordo.«Ho ricordi bellissimi di queste persone con cui collaboravo e cui ero legato: Piero Sugar con Caterina Caselli e con Filippo che oggi guida l’azienda ed era mio fan, l’editore Franco Daldello... era una grande famiglia».
Nella scaletta di «L’ultima notte rosa – The final tour», la serie concerti in 4 continenti che dal 10 marzo torna in Italia e con cui lei dà l’addio alle scene, non vedo «Se tu mi aiuterai»...«Non la faccio, e in passato l’ho fatta raramente. C’è stato un rigetto».
Come nacque «Ti amo»?«Sulle colline di Firenze, a casa di Bigazzi con la mia chitarra: mi resi subito conto che quel giro armonico era originale, specialmente a livello ritmico e metrico. Fin dal primo accordo suonato dalla mia Gibson nella versione originale del ’77, mi emoziona ancora oggi e quando la suono in ogni live... è immensa!».
Il rapporto con Bigazzi?«C’era un feeling particolare fra noi: quello dell’incontro fra due teste da cui si sviluppa un’energia che fa nascere cose irripetibili».
Avevate ruoli distinti?«Io ero pigro e lui mi stimolava a scrivere. “Sei una Ferrari con il pieno nel serbatoio che però sta chiusa in garage”. Aveva ragione. Forse avrei potuto dare di più... Però sono fortunato: mai avrei pensato di superare la frontiera di Chiasso con la musica».
E invece divenne una star anche in Francia... La chiamavano «Monsieur Ti amo»...«I deejay della Costa Azzurra avevano iniziato a passare il brano nelle discoteche e piaceva. Il capo del reparto promozione della Cbs francese, uno spagnolo trapiantato a Parigi che si chiamava Manolo Diaz, mi fece vedere un telegramma dell’allora presidente: “Tozzi non venderà mai una copia in Francia”. Se ne andò di lì a poco e quel telegramma finì incorniciato negli uffici parigini della Cbs. “Ti amo” arrivò a un milione e mezzo di copie».
La vita mondana di una star internazionale?«Due aerei al giorno... Non facevo concerti sia perché credevo che prima bisognasse avere un repertorio e ho aspettato fino al 1980 con “Stella stai”, sia perché ero sempre in giro a fare interviste. Incontravo spesso Julio Iglesias, eravamo nella stessa etichetta. Mi faceva sempre ridere. A me che sono pallido di carnagione e non stavo mai al sole spiegò che per sembrare sempre abbronzato prenotava i servizi fotografici per quando rientrava dalle vacanze al mare».
Groupie?«Sotto la porta della mia camera in hotel trovavo sempre i bigliettini con i numeri di telefono...».
«Fammi abbracciare una donna che stira cantando»: le femministe non apprezzarono quelle parole...«Mi distrussero, dicevano che era un atteggiamento maschilista. E invece quell’immagine mi era venuta pensando a mia mamma che abbracciavo quando tornando a casa la trovavo a stirare».
«Nel letto comando io ma tremo davanti al tuo seno» però è poco machista... I rapper di oggi sono più espliciti...«In effetti oggi si dice ben altro, noi eravamo dei santi in confronto... Non ascolto il rap: è giusto che ci sia, ma non mi emoziona, non mi trasmette nulla. Il problema della musica di oggi è che mancano le canzoni, forse perché non le sanno scrivere. Non credo si possa diventare come Michael Jackson con quello che sento in giro: lui invece emoziona ancora».
Chi era il «guerriero di carta igienica»?«Era per dire che ero stato un pezzo di m... Ma all’epoca non si poteva certo usare quell’espressione».
Ha sofferto per non essere stato apprezzato dalla critica?«Dicevano che facevo canzoni per l’estate. Quando hai successo in molti ti vogliono distruggere. Ero preso di mira».
Pesava il disimpegno politico delle sue canzoni?«Mi sentivo in imbarazzo, ero visto fuori luogo, non gradito. Facevo quello che mi piaceva fare, e il risvolto sociale e politico lo tenevo per me. Da quando la mia musica ha iniziato a uscire dall’Italia ho pensato “ma chissene”. Non era snobismo, avevo anche poco tempo per seguire cosa dicevano questi geni... Ho avuto un orientamento verso un altro pensiero e non mi sentivo appartenere a quei movimenti politici. Ero anarchico, non coinvolto da quelle esperienze».
Nelle interviste dell’epoca diceva: «Per vivere mi basta poco: un letto in cui dormire, un maglione da mettermi addosso, qualcosa da mangiare senza tante ricercatezze»... Oggi vive e Montecarlo...«Il maglione perché mia mamma mi chiedeva sempre, anche ad agosto, se avessi la canottiera di lana... La scelta di Monaco, mia e di mia moglie Monica, è arrivata dopo che avevano tentato di rubare in casa due volte: vivevamo a Castel de’ Ceveri, fuori Roma, e avevamo due bambini piccoli. Ci siamo spaventati. Monaco è l’unico posto al mondo dove ti dimentichi di chiudere casa con la chiave. Tutto costa molto, ma è stata una fetta della mia serenità. Detto questo, dopo 2-3 anni terribili dovuti alla mia cartella clinica (ha avuto un tumore, ndr) affronto la vita con una filosofia diversa. La salute è veramente tutto. Non avevo mai toccato prima di allora la non felicità del poter non esserci più».
Sempre dalle interviste del passato: ha detto che la droga le avevo fatto così male che la respinse. Roba pesante?«No, una volta mi fece male, ma molto male, fumare hashish e non ho più toccato nulla. Questo rifiuto fisico mi ha salvato. Nelle compagnie che frequentavo ai tempi in cui suonavo per strada a Torino c’era anche chi si bucava o chi faceva rapine in banca. La chitarra è stata il mio rifugio. L’ho scampata».
Con «Gloria» replicò il successo e la versione in inglese di Laura Branigan arrivò al numero due della classica americana...«Ricordo che quella canzone nacque intorno alle 16 di un pomeriggio triste e freddo suonando un pianoforte a muro che avevo affittato quando abitavo con i miei genitori in una casa in Via Frejus a Torino».
È esistita una vera Gloria? Si chiamava così?«Non è mai esistita una vera Gloria, era semplicemente una parola che suonava fantasticamente bene su quel riff musicale».
Si è immaginato l’ultimo concerto di questo tour di addio, quando si spegnerà la luce per l’ultima volta?«Ho molta paura... Ho altri progetti in arrivo che mi terranno occupato, ma sarà comunque dura non salire più su un palco. Ma c’è tempo, ho davanti a me un anno e mezzo di tour...».