Corriere della Sera, 28 gennaio 2025
IL vescovo di Bolzano dopo la scoperta degli abusi
«In questi giorni ho parlato con alcune delle vittime. Per loro è stato un momento di liberazione: le cicatrici rimarranno, ma apprezzano il fatto che, forse per la prima volta nella loro vita, sono state ascoltate e prese sul serio». È passata una settimana da quando il vescovo di Bolzano e Bressanone, Ivo Muser, ha reso pubblico il rapporto choc su 67 casi di abusi sessuali avvenuti tra il 1964 e il 2023. Prima iniziativa del genere in una diocesi italiana che, nel fine settimana, è stata al centro della sua visita pastorale. «Il tema è doloroso e divisivo, ma ho avuto modo di verificare che i fedeli hanno capito e mi ringraziano».
E dai vertici della Chiesa qual è stata la reazione?
«Non sono stato criticato da nessuno. Questa non è una ferita della Chiesa italiana o tedesca, ma un morbo presente in tutto il mondo. Per questo non vedo contrapposizioni. Tutti dobbiamo fare dei passi per un cambio di mentalità: tanti sapevano e tacevano, questo è il nodo vero. Parlando con le vittime la cosa che più mi ha straziato è sentir dire: “Non siamo stati creduti”; “Siamo stati lasciati da soli, anche all’interno delle nostre famiglie”».
Tranne qualche caso isolato, non mi pare che ci siano state molte reazioni pubbliche da parte degli altri vescovi italiani.
«Tutta la Chiesa italiana negli ultimi anni è in cammino su questo tema. Non ha senso fare una contrapposizione tra noi e il resto d’Italia perché siamo tutti sulla stessa barca. Anche il Papa ha più volte detto che non si può parlare di un fenomeno isolato».
Ha avuto qualche riscontro dalla Santa Sede?
«Ormai è passata una settimana, non mi aspetto una cosa del genere. In ogni caso, ripeto, noi non siamo l’ombelico del mondo. Facciamo solo il nostro lavoro e questo rapporto non è un punto d’arrivo, ma di partenza».
Vi siete affidati a un pool di Monaco. Pensate che in Italia non ci sia sufficiente indipendenza su questi temi?
«Ma no, ci hanno lavorato anche legali di Brunico e c’è stata grande collaborazione».
Insomma, non vi sentite una diocesi un po’ diversa?
«Questo proprio lo escludo. Noi ci sentiamo pienamente all’interno dell’episcopato italiano. Certo poi abbiamo la nostra storia. Due terzi della popolazione parla il tedesco, che è anche la mia madre lingua. Abbiamo tre etnie. Questa è la specificità della nostra diocesi che rispecchia la nostra storia e la nostra sensibilità. Ma questo non vuole dire che siamo in contrapposizione con qualcuno».
La Chiesa italiana è un po’ in ritardo su questi temi?
«Io parlo del nostro contesto e, se pensiamo all’Europa centrale, non siamo stati i primi a fare un’iniziativa del genere. Da noi c’è questa forte sensibilità. Questo sì, e ne sono contento. Mi auguro che tutti ci mettiamo in cammino per dare un segnale di un vero cambiamento culturale».
Dei casi ricostruiti nel dossier quale l’ha più turbata?
«Tutti i casi colpiscono. Ogni caso è uno di troppo».
Ci sarà una seconda fase della vostra iniziativa?
«D’ora in poi sarà fondamentale la prevenzione. Purtroppo il passato non si può cancellare, ma non dobbiamo fare altri errori come quelli per i quali anche io mi sono assunto le mie responsabilità chiedendo scusa».
Lei ha detto di voler puntare sui centri di ascolto con una maggiore presenza femminile. Perché?
«Gran parte delle nostre vittime sono bambine e donne. Solo una sensibilità femminile può cogliere meglio certi segnali».
Gli abusi sessuali sono una piaga della nostra società. C’è uno specifico del mondo della Chiesa?
«Come Chiesa dobbiamo porre molta attenzione al ruolo dell’autorità che esercita un potere. Gli abusi spesso sono parte di un abuso di potere».
C’è chi, semplicisticamente, pensa che tutto sia conseguenza del celibato dei preti.
«No, perché è un piaga che riguarda tutta la società. Certo, un celibato non accettato o vissuto male può essere una porta, ma in generale penso sia una semplificazione».
Alcuni casi sottovalutati sono avvenuti anche durante la sua guida della diocesi. Quali sono stati i suoi errori?
«È fondamentale ammettere i propri errori. Forse dovevo essere più severo nell’imporre e nel prevenire. Magari farò altri errori in futuro. Per questo dobbiamo saper coltivare la cultura dell’errore e non perdere mai la capacità di ascolto di chi soffre, che poi è la prima forma di amore».