Corriere della Sera, 28 gennaio 2025
Chi assedia Elly Schlein perché non corra contro Giorgia
Mo pare pure una stupidaggine. Che uno dice: che vuoi che sia? Ma è un fatto che ci si mette anche Elodie: «Sono di sinistra ma non voto Schlein, non ha carisma». Brutta zampata per una che sale sul carro del Pride di Milano e balla e canta Maracaibo. O che dal palco rappa con J Ax: «Indovina chi bussa alla porta? Sono io!». E Corrado Augias? Gli chiedono che cosa pensi di Elly e lui risponde: «Con il vostro permesso, passerei alla prossima domanda». Eppure lei, in fondo, come leader del principale e rinato partito di opposizione, chiede, magari pretende, una cosa sola: poter stare dritta in piedi nell’arena e sfidare l’imperatrice, Giorgia Meloni. Ma cresce la fronda, quasi un esercito, che si oppone, la prega di ripensarci, la sconsiglia, la avverte, quando addirittura non la minaccia. E il ritornello è sempre lo stesso: per battere il centrodestra il posto di candidata premier non può essere tuo.
Assedio, arte poliorcetica o ossidionale. Si circonda un fortino, si chiudono gli accessi, si devia il fiume e si toglie l’acqua, tutto per costringere alla resa. Solo che questa volta l’operazione è più complicata. Perché non si tratta di passare poi il soccombente a fil di spada, ma di convincerlo a mettere il suo tesoretto di voti nelle mani di qualcun altro.
Che Giuseppe Conte la ami come l’orticaria è stranoto. L’endorsement di Matteo Renzi a suo favore è durato lo spazio di un amen. Per Carlo Calenda è un’estremista. Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli non vedono l’ora di rappresentarla loro, la sinistra. Che ognuno di questi lavori per sé è normale. Però è proprio nell’area del Pd che l’onda cresce. La troppa vicinanza con Maurizio Landini e i suoi referendum non l’aiuta. Romano Prodi gliela ha giurata da quando ha guidato la battaglia perché Elly non si candidasse alle Europee. Perché non ti puoi far eleggere se poi a Strasburgo non ci vai. Ma anche perché tutti i voti che razzoli poi fanno da piedistallo per imprese future. E adesso insiste: «Schlein ha recuperato una valanga di consensi, ma non potrà mai vincere da sola. Il problema partito è risolto, il problema governo no». Beppe Sala, che se serve una mano lui c’è, spinge per la creazione del centro, lamenta che il Pd non sappia parlare al Nord, vuole il terzo mandato per sindaci e governatori. Graziano Delrio chiede più considerazione e potere per i cattolici e quasi paventa una mezza scissione. Tralasciamo, per carità di patria, che cosa pensi di Elly Vincenzo De Luca. E poi Pierluigi Castagnetti, così vicino a Sergio Mattarella. E ancora Lorenzo Guerini, maestro di silenzi, Claudia Mancina, Enrico Morando, Giorgio Tonini. Ma quello che ha smosso di più le acque è Dario Franceschini, il gran visir di tutte le correnti, l’unico potente che alle primarie si era schierato con Schlein contro Stefano Bonaccini. A Repubblica ha detto che è meglio marciare divisi per colpire uniti, che l’Ulivo è morto, pace all’anima sua e che, se pure il Pd arrivasse al 30 per cento, non basterebbe, servirebbe comunque un’alleanza. E quindi, verrebbe da dire, se questa alleanza si fa solo dopo il voto, quante possibilità ci sono che tutti alzino il ditino indicando Elly come premier?
Pare che dal Nazareno sia partito un ordine di scuderia: non commentate la proposta di Dario. Per poi lasciare il solo e fedelissimo Marco Furfaro a dare una risposta di maniera. Infine, ieri, la frase liquidatoria di Schlein: «La strada per un’Italia diversa la stiamo già costruendo, con le iniziative comuni delle opposizioni contro il governo». No, il dibattito no, il grido di morettiana memoria è il mantra della segretaria. Perché per lei il chiacchiericcio aiuta solo Meloni, che invece va colpita sulle cose concrete, dalla sanità al salario minimo. E poi perché hai voglia se lo ha capito che quello della discussione interna è un modo per metterla con le spalle al muro e costringerla a rinunciare di fare la frontwoman della coalizione che verrà. Ma a mollare lei non ci pensa proprio, al momento. Deve nascere un centro? Che nasca, magari con lo stratagemma delle liste civiche. Poi, quando si arriverà al dunque, se non si vuole essere tritati dalla legge elettorale, in qualche modo bisognerà unirsi. E non serve un federatore, basterà lei.
Ma il treno della ricerca del nome è partito, perché l’importante è vincere e non partecipare, anche se non si sa ancora se arriverà in stazione. E c’è una situazione oscillante che spinge pure il centrodestra ad immaginare un piano B. Non che la candidatura di Meloni sia minimamente in discussione, ma se lo schema di Giorgia contro Elly, che la premier sembra coltivare, dovesse venire meno, qualche cosa bisognerebbe pur inventarla. Ma intanto, ammesso e non concesso che si possa convincere Schlein a dare via libera a nuove soluzioni senza sfasciare tutto, bisognerebbe capire a chi consegnare il timone. Il tempo del papa straniero, quello per capirci in cui Massimo D’Alema consegnò le chiavi a Prodi, pare tramontato. La candidatura appena ventilata di Ernesto Maria Ruffini è caduta pressoché nell’indifferenza. L’unica strada al momento forse percorribile è che sia il Pd ad indicare un nome che venga dalle sue file, e ovviamente non quello di Elly. Difficile individuarlo tra i fedelissimi della segretaria, ma magari si potrebbe cercarlo tra i lealisti. Di questo fronte fa parte Paolo Gentiloni. Pochi giorni fa gli sono bastati i cinque minuti da Bruno Vespa per spiegarsi: «C’è una gran voglia di pluralismo interno, trasformarlo in una fronda contro Schlein sarebbe un errore. Quello che però è in discussione è: abbiamo uno schieramento sufficiente? Abbiamo un profilo di governo sufficiente?».
È la domanda delle cento pistole, non si scappa. Né aiutano le parole della canzone: «Maracaibo/mare forza nove/fuggire sì ma dove/Za Za».