La Lettura, 26 gennaio 2025
Una mostra sui bozzetti preparatorî cinematografici
Annachiara Sacchi su La Lettura (Corriere della Sera): «Per raccontare la struttura del set, come l’interno della nave madre disegnato a mano da Ron Cobb per Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg (1977). Per definire uno spazio, come il Mar Rosso che si separa nei Dieci comandamenti (1956) di Cecil B. DeMille. Per dare il senso della rivalità tra gang nella Manhattan di West Side Story di Robert Wise e Jerome Robbins (1961) con gli sketch di Saul Bass. Per trasmettere le vibrazioni di un luogo, vedi la città popolata da angeli di Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders (1987), con Bruno Ganz sulla statua della Vittoria in uno schizzo del direttore della fotografia Henri Alekans. E ancora, le prime prove di un cartone animato, non uno qualunque: Betty Boop dei Fleischer Studios (siamo negli anni Trenta). E per vestire i personaggi, fissare le sequenze, aiutare attori e scenografi. Per condividere idee. Sono tanti i motivi per cui, con tecniche diverse ma sempre con lo stesso obiettivo, svelare, gli storyboards continuano a essere preziosi elementi per la realizzazione dei film. Opere d’arte nate prima della pellicola. Gioielli preparatori che interpretano la poetica del regista. Strumenti utili e nascosti. A Milano, una mostra della Fondazione Prada (30 gennaio-8 settembre) li espone in una vorticosa carrellata lunga un secolo. Fino a oggi.
S’intitola A Kind of Language: Storyboards and Other Renderings for Cinema l’esposizione curata dall’americana Melissa Harris (editor at large di Aperture Foundation), dedicata al processo creativo che anticipa la realizzazione di un film. Materiale immenso e poco noto, da cercare negli archivi, a volte in scatoloni e cantine: storyboards ma anche moodboards (composizioni di immagini che danno il senso dello «spirito» che si intende trasmettere), disegni, schizzi, quaderni, sceneggiature commentate, fotografie. Allestito negli spazi dell’Osservatorio nella Galleria Vittorio Emanuele II — luogo decisamente cinematografico — il progetto comprende ottocento lavori preparatori realizzati tra la fine degli anni Venti del Novecento e il 2024. Oltre cinquanta gli autori: registi, direttori della fotografia, artisti, grafici, animatori, coreografi e altre figure legate alla produzione di film e video (non sono in mostra materiali relativi ai film di David Lynch, il regista americano scomparso il 15 gennaio: «Purtroppo e ci dispiace molto. La notizia della sua morte ci ha sinceramente rattristato»).
E allora ecco gli spazi mastodontici e inquietanti disegnati da J. Russell Spencer, art director sopraffino, per Il grande dittatore diretto da Charlie Chaplin nel 1940 (i fotogrammi del film sono spaventosamente fedeli alle immagini cartacee). E il ring di Toro scatenato (1980) fatto a matita dallo stesso Martin Scorsese. E i bozzetti di Rebecca la prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock, di Interstellar di Christopher Nolan (2014), quelli di Julieta (2016) di Pedro Almodóvar con gli storyboards di Pablo Buratti, che firma anche quelli realizzati per illustrare la mostra milanese, con le silhouette dei visitatori negli spazi dell’Osservatorio.
È un viaggio a capofitto nel meglio del cinema mondiale, un making of disegnato e non girato. C’è la grande animazione, da Fantasia di Walt Disney del 1940, passando per Alla ricerca di Nemo, produzione Pixar del 2003, a Il ragazzo e l’airone (2023) di Hayao Miyazaki, con le note scritte, le istruzioni sugli effetti sonori, gli appunti (e naturalmente gli splendidi disegni preparatori) del maestro premio Oscar. E poi c’è il cinema di carne e ossa, con le pietre miliari come il cortometraggio surrealista Un cane andaluso (1929), scritto, prodotto e interpretato da Luis Buñuel e Salvador Dalí, ed è ovvio di chi sono le note disegnate, Persona (1966) con in mostra il diario di Ingmar Bergman, Psycho (1960) di Hitchcock, con gli storyboards di Saul Bass.
Due anni per raccogliere il materiale. «Tutto è nato — racconta Harris — dalla scoperta dei disegni di Martin Scorsese: venni a sapere dei suoi storyboards e iniziai ad allargare la ricerca ad altri nomi. Da allora è partito un viaggio entusiasmante che Fondazione Prada, con cui avevo già lavorato, ha subito accolto. Con una caccia furiosa ai pezzi più significativi, in cui è stato fondamentale Carlo Barbatti: spesso i registi non hanno idea di dove certi documenti siano finiti». Sequenze di schizzi e altri elementi saranno esposti su tavoli ispirati alle scrivanie di cineasti e artisti, ogni tavolo dedicato a un film (l’allestimento è di Andrea Faraguna dello studio Sub): sarà come muoversi tra i fotogrammi (ci saranno anche elementi sospesi al soffitto). Continua Harris: «Per molti autori creare storyboards è parte integrante del processo. Impostare visivamente una scena aiuta a riflettere sui personaggi, a sviluppare la narrazione, a trasmettere una sequenza. Può correggere problemi e offrire riferimenti utili agli attori. Agevola le scelte delle angolazioni più efficaci per le luci e le riprese, o il modo più corretto di impiegare gli effetti speciali».
L’investimento culturale, creativo, economico, personale che c’è dietro ogni produzione, la visione del regista e la sua interpretazione, le sfide, i cambiamenti in corsa, i progetti abortiti (come il Dune di Alejandro Jodorowsky, mai prodotto, ma gli storyboards ci sono), le idee condivise, contestate, ridefinite: la magia e la complessità del cinema sono racchiuse (anche) in «un tipo di linguaggio» (questa la traduzione di A Kind of Language) che usa — prima del ciak — i codici della creatività visiva. «Ed è forse questa la parte più interessante alla base dell’esposizione», aggiunge Harris. «E cioè la partecipazione umana, l’unione di personalità diverse che dialogano e collaborano a un progetto comune».
Quaderni sdruciti, lucidi, fogli tradizionali, simulazioni di disegni con tracce audio (gli animatics, cioè storyboards animati, come quelli di The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson del 2014), i collage e manoscritti di Jean-Luc Godard per Le livre d’image (2018). L’artigianalità europea, l’efficienza americana. I supporti tradizionali e quelli moderni. Perché la mostra, sottolinea la curatrice, «non vuole essere solo storica. Abbiamo tanti talenti contemporanei». Che usano mani per disegnare e computer, nuove tecnologie e matite. La curatrice riflette: «L’Intelligenza artificiale avrà sicuramente un effetto sul futuro del cinema, ma non potrà mai rimpiazzare l’immaginazione umana».
Da vedere, tra annotazioni, post-it, vignette, foto strappate, soluzioni geniali, i lavori di tre cineasti italiani: i ritratti che Pier Paolo Pasolini fece per Mamma Roma (1962) interpretato da Anna Magnani, le caricature di Federico Fellini per Amarcord (1973) «con cui suggeriva il carattere dei personaggi», i dettagliatissimi disegni — fotogramma per fotogramma — di Piccolo Buddha di Bernardo Bertolucci (1993): «Sono tutti diversi e tutti grandissimi. Con personalità che trascendono il genere, la nazionalità, l’appartenenza etnica»».