il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2025
L’inchiesta: quale sarà il futuro della Siria
È una luminosa mattina d’inverno. Una folla colorata si accalca sul piazzale della Grande Moschea degli Omayyadi, nel centro di Damasco. Un gruppo di giovani, avvolti nella nuova bandiera siriana con le tre stelle, sta scattando un selfie con i soldati del Hayat Tahrir Al-Cham (HTC), la milizia che ha rovesciato il regime di Bashar al-Assad lo scorso dicembre prendendo il controllo della Siria. Poco lontano, alcune persone si godono il sole mangiando pasticcini, mentre i bambini si divertono a far volare palloncini. Per molti siriani, tornare alla Moschea degli Omayyadi è un momento di festa, che rappresenta per alcuni la fine dell’esilio, per altri la ritrovata libertà di muoversi da una città all’altra senza temere né i posti di blocco né le spie del regime di Assad.
Un uomo con i capelli bianchi attraversa con passo incerto la piazza, lasciandosi alle spalle una monumentale fontana per le abluzioni. Entra nella maestosa sala della preghiera e, con le scarpe in mano, la testa rivolta verso l’alto, contempla le vetrate colorate. Una luce dorata inonda gli immensi tappeti per la preghiera: “Qui è dove io e mia madre venivamo a riposarci dopo il mercato”, dice. È passato mezzo secolo da quando Farouk Mardam-Bey, 80 anni, aveva visto la Siria per l’ultima volta. Arrivato in Francia nel 1965 per portare avanti gli studi, è stato tra i primi intellettuali siriani a opporsi al regime di Hafez al-Assad, padre di Bashar al-Assad, e ha pagato con un lungo esilio il suo militantismo. Nel 1976, dopo aver partecipato ad una manifestazione contro l’intervento delle truppe siriane in Libano, gli fu ritirato il passaporto. Condannato all’esilio per tutta la durata della dinastia Assad, ha rischiato di non poter più rivedere il suo Paese natale. “Avevo perso la speranza di tornare. Ma la storia ha colto tutti di sorpresa, me compreso”, osserva con un sorriso. Farouk Mardam-Bey, specialista di letteratura araba, ha scelto di venire a Damasco non con la famiglia, ma insieme a due amici, Ziad Majed, docente universitario franco-libanese di Scienze politiche, e Subhi Hadidi, scrittore e giornalista siriano, con il quale ha pubblicato Dans la tête de Bachar al-Assad, uscito in Francia nel 2018 (Solin/Actes Sud). Alle grandi cene e alle riunioni con gli amici di un tempo, ha preferito respirare l’aria di casa, attraversare i viali della città, trascorrere i pomeriggi nei caffè del centro storico o nel campus della sua ex università, e camminare nei quartieri della sua infanzia per riappropriarsi di una terra che pensava di essere condannato a contemplare solo da lontano. Una volta uscito dalla sala di preghiera, si sofferma a osservare gli splendidi mosaici di ispirazione bizantina, d’oro, verde e blu, che tappezzano la facciata della moschea. Raffigurano una Damasco pastorale e paradisiaca, circondata da alberi venerabili e da ruscelli trasparenti.
La realtà fuori dalle mura degli Omayyadi è molto diversa. “Questa città non assomiglia affatto a quella che ho lasciato negli anni ‘70 – racconta Farouk Mardam-Bey, con una certa tristezza nella voce –. È stata sfigurata dall’esodo massiccio della popolazione rurale emarginata, è cresciuta in modo anarchico, divorando i magnifici frutteti di Ghouta, ed è terribilmente inquinata. È come il resto della Siria: distrutta, in ginocchio”. I vicoli intorno alla moschea e all’antico souk sono pieni di mendicanti. Decine di bambini con le guance scavate vagano sui marciapiedi, frugando nei cassonetti della spazzatura, vendendo fazzoletti, pane o del lucido per scarpe. “È la povertà che mi rattrista di più – continua –. Ai miei tempi era inimmaginabile. La stragrande maggioranza dei siriani soffre la fame. Quasi il 90% è caduto in povertà, forse il 70% in estrema povertà. È molto triste”.
Il giorno prima del nostro incontro, Farouk Mardam-Bey aveva trascorso alcune ore nel campo palestinese di Yarmouk, un sobborgo di Damasco raso al suolo dai bombardamenti del regime tra il 2013 e il 2018. “Quando il regime è caduto, noi intellettuali siamo stati subito entusiasti per il ritorno della libertà di espressione. È stata la nostra prima reazione naturale. Ma se la libertà d’espressione è una questione cruciale, certo, l’emergenza sociale lo è di più. Quando sono arrivato in Siria, ho capito che la priorità assoluta è che le persone ritrovino sicurezza e dignità nella loro vita quotidiana. Il resto verrà da sé”. Una parte della responsabilità di quello che verrà è nelle mani dei soldati dell’HTC. Durante il suo soggiorno in Siria, Farouk Mardam-Bey ha incontrato molti di questi miliziani, dall’aspetto conservatore, spesso provenienti dalle zone rurali del Paese. Li ha trovati piuttosto sorridenti, ma non ha avuto modo di conversare con loro. “Sappiamo da dove vengono. Bisogna quindi restare vigili. Ma finora non hanno vietato nulla e la gente può esprimersi liberamente. Sono sinceri? – si chiede –. A questo stadio, a molti siriani non interessa. Interessa solo approfittare di questa improvvisa e insperata finestra di libertà”. Non ha ancora visto alcun segno di quel pericolo “islamista” di cui parlano i media occidentali. “Non credo che ci sia questo rischio. In Occidente ci si chiede se Ahmed al-Charaa, il capo di HTC, ha intenzione di velare le donne. Ma lo sono già! Nella mia università, sessant’anni fa, erano pochissime le donne che portavano il velo. Oggi lo porta la stragrande maggioranza di loro. La religione si è affermata qui, come del resto nella maggior parte delle altre società arabe, nel corso degli ultimi decenni”. Il vero pericolo, a suo avviso, è un altro: che il panorama politico siriano, annientato da cinquantaquattro anni di totalitarismo sanguinario, non riesca a ricostruirsi. In questo caso, il gruppo HTC governerebbe la Siria senza alcun contro potere, facendo precipitare il Paese in una nuova dittatura. “Esiste certamente una società civile, con voci forti, ma non c’è ancora nulla di organizzato. Non ci sono sindacati, né strutture militanti. La gente si esprime, ed è bene che sia così! Ma ci si deve unire per poter controbilanciare il potere di HTC”, osserva. Il suo albergo si trova non lontano dal Parlamento. L’edificio piuttosto degradato mostra quanto le istituzioni siriane dovranno fare per reinventarsi. Come Farouk Mardam-Bey, centinaia di intellettuali siriani in esilio stanno tornando in questo momento a Damasco. Nella loro patria d’adozione, molti hanno raggiunto un buon livello di vita, godono di importanti risorse finanziarie e talvolta anche di una presenza attiva nella vita economica o culturale del Paese. Potranno rivendicare ora un ruolo politico nella nuova Siria? Farouk Mardam-Bey è scettico. “A parte forse alcuni di loro – risponde –, sarei sorpreso se riuscissero a avere un ruolo politico di rilievo. La maggior parte di noi intellettuali siriani, compreso me, non ha più nulla in Siria. Inoltre stiamo tornando in ordine sparso. Ma se si vuole avere un peso sul nuovo assetto del Paese, non si può tornare da soli”. Farouk Mardam-Bey, co-autore anche di Notre France (Sindbad, 2011), insieme a Elias Sanbar e Edwy Plenel, dubita che la diaspora siriana che vive in Europa tornerà in massa in Siria per trascorrere più di qualche giorno o settimana. Soprattutto chi ha la famiglia e i figli che vanno a scuola. “Bisogna essere realisti, poche persone lasceranno Berlino per Idlib. Sarà forse perché sono marxista, ma penso che le condizioni materiali abbiano la precedenza su tutto il resto”.
In ogni caso, Farouk Mardam-Bey non pretende di svolgere alcun ruolo in Siria, se non quello di testimone: “Il futuro di questo Paese – dice – appartiene a coloro che hanno sofferto sotto il regime di Assad. Sono gli unici a sapere quale strada seguire e ad avere il diritto di tracciarla”. Quando tornerà a Damasco in primavera, Farouk Mardam-Bey non alloggerà più in un albergo, ma a casa degli abitanti del posto, poserà le valigie per diverse settimane e incontrerà i vecchi amici. “Voglio capire com’è la vita dei siriani – aggiunge –, la mancanza di elettricità, di acqua, le difficoltà della vita quotidiana… Tornerò il più spesso possibile, per non perdere neanche una briciola del destino della nuova Siria”.
Traduzione di Luana De Micco