La Stampa, 27 gennaio 2025
Tornano a suonare i violini del lager
A Tel Aviv, non lontano dal monumento a memoria eterna delle oltre 6 milioni di vittime dell’Olocausto, in una piccola strada laterale, c’è un altro memoriale della Shoah. È in un appartamento privato su due piani di un palazzo bianco. Una scala porta al seminterrato dove, dietro ad una porta molto spessa, il colore abbagliante del legno lucido di alcuni violini appesi, le corde e le casse armoniche impilate una sull’altra raccontano la musica straziante del dolore. Quei violini suonavano nei campi, cantavano con l’ultima voce possibile l’orrore. Forse, per qualche istante, riuscivano a trasportare gli internati fuori dal lager, dall’Olocausto. Raccontavano in musica storie di uomini, donne e bambini. E una Storia più grande, quella più buia del secolo scorso.Il laboratorio di Tel Aviv è stato per decenni la casa di Amnon Weinstein. Ebreo di origini lituane, fino a maggio scorso, quando è morto a 85 anni, scendeva ogni giorno le scale che portano alla bottega, per mettere mano e restaurare quelli che considerava suoi figli. Aveva imparato in Italia l’arte del padre. I sopravvissuti alla Shoah, coi violini marchiati dalle svastiche dei lager, andavano da lui per restaurarli.Ora, è suo figlio Avshi a custodire una collezione particolare: i “violini della speranza”, perché di questo parlano. Sono strumenti appartenuti a sopravvissuti o vittime dell’olocausto, che hanno suonato nei campi di concentramento o nei ghetti. Ogni violino porta con sé una storia, un dramma, una vita, una memoria. Questa memoria, Avshi tenta di tenere in vita. Come quella del primo violino che capitò a suo padre.Ogni corda riporta indietro al dramma di chi ha assistito alla soluzione finale, di chi è defunto, di chi è sopravvissuto. Avshi tenta di tenere in vita tutto questo. Come fece suo padre con il primo violino. «Una persona arrivò al suo laboratorio – racconta Avshi – e gli consegnò il suo violino, dicendo che lo aveva suonato ad Auschwitz, nei pressi delle camere a gas. Lui non avrebbe più voluto suonarlo dopo l’Olocausto, ma il figlio ha insistito, così ha chiesto a mio padre di restaurarlo, raccontandogli la storia. Quando mio padre ha aperto il violino, dentro ci ha trovato polvere nera, molta. Ha capito che proveniva dal crematorio. Non è riuscito a farci nulla, gli faceva male. A quel punto ha deciso di metterlo sotto terra, per dare a quei resti la giusta sepoltura. Dopo alcuni anni, altri sono arrivati ed è cominciata la collezione».È stato suo nonno il primo ad avere l’idea di recuperare questi strumenti. Il nazismo non ha fatto distinzioni di ceto o cultura fra gli ebrei, molti strumentisti sono riusciti a salvarsi scappando in Israele, dove nel 1936 è stata fondata la Israeli Philarmonic Orchestra, che usa alcuni di questi violini.Nella collezione dei violini della speranza ci sono pezzi con storie incredibili. «Come quello che, una volta aperto, mio padre ha scoperto recare all’interno una svastica e la frase “Heil Hitler 1936”, probabilmente aggiunta da un liutaio tedesco. Il violino è ancora così, non verrà aggiustato e non suonerà. Oppure quello abbandonato sui binari francesi da un violinista arrestato a Parigi e destinato ad Auschwitz, o quello che ha suonato nel campo ed è stato venduto dal suo proprietario, sopravvissuto allo sterminio, per poter mangiare e arrivato poi a noi». Nella collezione, ci sono anche molti violini dei klezmer, i tradizionali musicisti ebrei ashkenaziti. Violini che hanno tutti una stella di Davide incisa, a parte uno che ne ha ben cinque.«In tanti – continua Avshi – portavano a mio nonno e a mio padre i violini. Li restauravano, ci hanno trovato dentro foto, oggetti, tutte memorie di un periodo terribile, storie di persone che non sono più tornate. Ad un certo punto, visto che la collezione aumentava, si è deciso di metterla a disposizione di orchestre, per farli risuonare, per far risuonare la speranza. Da qui la decisione di fondare l’ensemble I Violini della Speranza».Avshi, come suo padre, è impegnato nella diffusione di questa idea. In questi giorni è a Berlino, dove i violini stanno suonando con la Rundfunk-Sinfonieorchester, eseguendo anche un brano scritto da Berthold Tuercke proprio per loro.Tra questi strumenti, è presente anche quello di Joyce Vanderveen, una delle più famose ballerine olandesi, scampata miracolosamente alla persecuzione nazista. La sua foto è appesa nella casa di Anna Frank perché le era di ispirazione. «I figli – spiega Avshi – hanno voluto regalarci il suo violino dopo che mio padre ha ricevuto il premio dedicato ad Anna Frank. E altri ne stanno arrivando. La musica nei campi di concentramento era una consuetudine e spesso i musicisti internati erano costretti a suonare opere anti ebraiche oppure suonare mentre i loro amici venivano uccisi nelle camere a gas. Ma la musica ha salvato anche molti di loro. Per questo, la mia famiglia ha deciso di conservarne la memoria. Far tornare a risuonare questi strumenti significa non smettere il ricordo di quelle persone che hanno vissuto e subito l’Olocausto. Per questo, li mettiamo a disposizione di orchestre. La nostra piccola opera di memoria – conclude Avshi – rende giustizia a chi non è riuscita ad averla».