Corriere della Sera, 27 gennaio 2025
La nascita della nuova destra nei ricordi di Bocchino
Italo Bocchino, a Fiuggi lei era il più giovane della nidiata di Pinuccio Tatarella, aveva 27 anni. Chiuda gli occhi: che prova?
«Grandissima gioia. Al congresso ero accanto a mio padre Gaetano, missino doc, mi ricordo ogni istante. Papà da un lato provava il mio stesso sentimento, ma poi pianse per il dolore ascoltando il passaggio in cui Gianfranco Fini disse: “Lasciamo la casa del padre sapendo che non vi faremo più ritorno”. Una differenza generazionale: i più grandi piangevano, noi giovani gioivamo».
Capì che stava vivendo un momento da libro di storia?
«Si capì subito. La Svolta di Fiuggi è stato uno dei più grandi servigi alla democrazia italiana. Rendere la destra alleabile ha reso compiuta la nostra democrazia, che fino a quel momento era incompiuta. È stata la fine politica della guerra civile, anche se giornalisticamente poi non è finita, in quanto la sinistra continua a paventare lo spettro del fascismo. Le posizioni espresse su lotta partigiana e Shoah, includendo anche pensatori nel dna della sinistra come Gramsci, furono un momento così alto della politica che non se ne sono più visti».
Un protagonista in particolare di quel giorno?
«Indiscutibilmente Tatarella, uno degli ideologi. Pinuccio coltivò il progetto di una destra che usciva dal ghetto. La prima volta in cui si capì che lui ci aveva visto giusto fu alle Comunali di Roma nel 1993, quando Fini arrivò al ballottaggio contro Francesco Rutelli, battendo la Dc».
Ma Tatarella, il seme di quell’idea dove lo raccolse?
«Le racconto un aneddoto molto particolare. A Perugia, dove io guidai il Fuan, c’era il mio primo maestro: Luciano Laffranco, leader purtroppo poi scomparso a 54 anni. Fu lui il primo che teorizzò la trasformazione della destra missina in un “Partito degli italiani”. In un articolo su Repubblica presidenziale, giornale animato da Tatarella, scrisse che ci dovevamo evolvere, per diventare la casa del mondo produttivo dell’Italia. Questa cosa Laffranco la teorizzò dopo aver avuto un colloquio con una maga, alla quale si rivolse perché aveva un figlio malato, Michele, che morì a 14 anni. Poi continuò a frequentare questa maga, che a un certo punto gli disse che nel futuro vedeva appunto un “Partito degli italiani”. Così lui scrisse di getto quell’articolo, tracciando un sentiero che divenne poi collettivo».
Senza Fiuggi, oggi Fratelli d’Italia sarebbe al governo e con queste percentuali?
«La storia della destra va letta unitariamente, altrimenti si commette un errore. La destra nasce con la fondazione del Msi nel 1946, democratizzando e parlamentarizzando gli sconfitti della guerra civile. Nel ‘48 entrano i primi eletti in Parlamento: fu un atto talmente forte che l’unico simbolo sopravvissuto fino ad oggi è appunto la fiamma».
Quindi la fiamma deve rimanere nel simbolo di FdI?
«Nessuno chiederebbe al Mulino bianco di togliere il proprio simbolo. È pura follia pensare di rimuovere un marchio così vincente, anche perché un richiamo ideale è importante: simbolo di passione ed è intergenerazionale».
Fini, oggi, per motivi politici e anche per via della pesante condanna è rimasto con pochi amici. Ma fu indiscutibilmente l’artefice di questa svolta. Anche con lei ci sono stati momenti burrascosi. E oggi come va?
«Non ci ho mai litigato. Sono sempre stato un fratello minore di Gianfranco. Su Fini pende una damnatio memoriae ingiusta, dovuta agli errori che abbiamo commesso e al processo che sta subendo ma da cui, alla fine, uscirà pulito. Senza di lui la destra attuale non sarebbe una destra protagonista e di governo».
FdI potrebbe essere a propria volta il contenitore di un’altra evoluzione, per costruire un partito conservatore unico. Meloni ci riuscirà?
«Fratelli d’Italia è il punto di arrivo di questa nostra traversata nel deserto. Penso che Meloni farà evolvere FdI, che diventerà un partito conservatore di massa, o meglio che rappresenterà il conservatorismo nazionalpopolare».