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 2025  gennaio 26 Domenica calendario

I segreti di Xi

Conosciamo vita, miracoli e misfatti (politici e non) di Donald Trump. Sappiamo molto anche di Vladimir Putin e dei suoi obiettivi sanguinosi sul fronte del neo-imperialismo territoriale. E nonostante quello nordcoreano sia definito il «regno eremita», c’è un’ampia letteratura alimentata dall’intelligence sul Maresciallo supremo Kim Jong-un. Siamo invece straordinariamente poco informati su Xi Jinping, sulla sua ascesa al potere (forse a vita) nella Cina seconda superpotenza del mondo, che ha appena messo a bilancio nel 2024 un surplus commerciale da quasi mille miliardi di dollari, per due terzi frutto di esportazioni negli Stati Uniti e in Europa.
Xi ormai è «il solito sospetto» in ogni crisi internazionale e ogni sconvolgimento dell’economia globalizzata. Gli indizi di colpevolezza si accumulano: l’amicizia «senza limiti» proclamata con Putin pochi giorni prima dell’attacco russo all’Ucraina; la minaccia crescente nei confronti della democratica Taiwan; il bullismo militare nel Mar Cinese Meridionale; l’invasione di auto elettriche cinesi a basso costo che mette fuori mercato le industrie europee. Eppure, l’opinione pubblica mondiale non ha elementi chiari per interpretare e giudicare pensiero e aspirazioni di Xi, che non accetta conferenze stampa, non concede interviste, non usa i social. I suoi tre uffici – di segretario generale del Partito comunista, di presidente della Repubblica popolare, di capo della Commissione militare centrale – non hanno numeri di telefono pubblici ai quali i giornalisti possano rivolgersi. I discorsi tenuti da questo «triumvirato di un uomo solo» spesso sono diffusi dalla propaganda mandarina solo mesi se non anni dopo l’evento. Le frasi distillate in pubblico da Xi, i documenti elaborati dal suo Politburo, hanno uno stile ermetico che lascia nel dubbio i «pechinologi» di lungo corso. I corrispondenti della stampa internazionale in Cina si tramandano una battuta: «Chi sa non parla e chi parla non sa».
Nell’opacità nella quale il sistema nominalmente comunista della Cina si è avvolto, cerca qualche spiraglio di luce Michael Dillon, professore del King’s College di Londra, che ha dato un titolo significativo al suo nuovo saggio storico: Dobbiamo parlare di Xi (Chiarelettere).
Dillon ha frequentato la Cina per cinquant’anni, nel 2009 è stato visiting professor della Tsinghua, l’università di Pechino dove alla fine degli anni Settanta, riemerso dal lavoro nei campi in cui lo aveva spedito la Rivoluzione culturale, ha studiato anche il giovane Xi. Parte delle rivelazioni sul passato del leader che danno un’anima al volume sono frutto di discussioni che l’autore ha potuto avere con colleghi e allievi della Tsinghua. Nel 2009 l’élite intellettuale cinese si sentiva relativamente libera di parlare in privato con gli stranieri delle dinamiche di potere nel Partito. I problemi gravi dell’economia e il confronto sempre più duro con l’Occidente hanno reso insicuro e diffidente il Partito-Stato e oggi quel canale di comunicazione e comprensione tra cinesi informati e osservatori internazionali è stato troncato: parlare di Xi a Pechino è pericoloso, diversi professori e giornalisti sono stati inghiottiti dal buco nero della repressione statale per aver espresso semplici dubbi sulla situazione politica ed economica.
Eppure, quando nel 2012 fu nominato segretario generale del Partito comunista, molti osservatori occidentali pensarono che Xi potesse dimostrarsi addirittura un liberale (sempre «con caratteristiche socialiste cinesi», come si dice a Pechino, dai tempi delle riforme di Deng Xiaoping, per giustificare contraddizioni e doppi giochi). Il merito maggiore del lavoro di Dillon è di essere strutturato come la biografia di un uomo e della storia recente del Partito che lo ha scelto come leader supremo. Mette in ordine gli eventi nella vita politica di Xi che si intrecciano con quella familiare.
È nato a Pechino nel 1953, il padre era un compagno della prima ora di Mao, quindi fa parte del taizi dang, che significa «partito dei principi ereditari» e si riferisce ai figli e alle figlie, ai nipoti o ad altri parenti stretti di altissimi dirigenti del Partito. Però il padre, Xi Zhongxun, lui sì riformista moderato, fu purgato due volte: nelle lotte di potere degli anni Sessanta e poi prima della crisi di Tienanmen.
Secondo l’agiografia della Xinhua, l’agenzia di stampa ufficiale, intitolata Uomo del popolo, quando Mao lanciò la Rivoluzione culturale nel 1966 il ragazzo Xi «soffrì umiliazioni pubbliche, la fame, restò senza casa e finì anche in cella». Si dice che in quell’era terribile una sorella maggiore si sia tolta la vita, sconvolta dalle vessazioni delle Guardie rosse. Il futuro presidente se la cavò con quattro anni di lavoro nelle campagne del povero Shaanxi. In seguito si è vantato della sua resistenza fisica raccontando: «All’epoca riuscivo a portare 200 jin (100 chili) di grano sulle spalle per 10 li (5 chilometri) lungo una strada di montagna».
Dillon dà atto a Xi di non frequentare i principi rossi e sostiene che uno dei segreti della sua ascesa è stata la capacità di non intervenire nelle lotte intestine fra le correnti del Partito: forse le detesta perché le considera responsabili delle disgrazie del padre. La battaglia contro la corruzione è uno dei cavalli di battaglia del presidente: appena eletto aveva promesso di «cacciare le tigri e schiacciare le mosche» che derubano lo Stato. Questa interminabile «mani pulite» mandarina continua a ricevere il consenso dell’opinione pubblica e dunque difende la legittimità del Partito agli occhi della gente. Naturalmente può servire anche a eliminare avversari politici. Ma i numeri sono così imponenti da rendere inverosimile l’ipotesi del semplice regolamento di conti: la Commissione centrale per l’ispezione della disciplina nel 2024 ha messo sotto inchiesta 74 mandarini di grado ministeriale (tigri nel linguaggio di Xi) e 4.348 alti burocrati pubblici, oltre a punire in tutto 889 mila dei 96 milioni di tesserati comunisti (le mosche). Sembra sincera la preoccupazione esibita dall’imperatore della Repubblica popolare per le condizioni di vita di milioni di cinesi nelle campagne: gli si illumina lo sguardo quando visita villaggi remoti e chiede alla gente che cosa bolle nelle loro pentole e se l’acqua del pozzo è buona.
Abbastanza credibile sul fronte della lotta contro corruzione e povertà, dunque. Ma che cosa si può dire riguardo al rapporto con Putin? Dillon scrive che «è uno dei maggiori enigmi» della sua azione di governo perché i rapporti tra Cina e Russia sono storicamente complicati e ambigui. I due si sono incontrati decine di volte, si definiscono «amici del cuore», si sono promessi «collaborazione senza limiti». Ma Xi dev’essere anche irritato dalla posizione in cui lo ha spinto Putin attaccando l’Ucraina, perché la Cina non può permettersi di perdere il rapporto (commerciale) con l’Europa nel mezzo di una nuova guerra fredda con gli Stati Uniti. Dillon sostiene che solo Pechino può esercitare l’influenza necessaria per costringere Mosca a fare concessioni che potrebbero essere accettate da Kiev e fermare la guerra. Secondo questa teoria Xi è il solo che può offrire cordialmente la mano a Putin in pubblico e torcergli invece il braccio in privato.