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 2025  gennaio 26 Domenica calendario

Il mondo nuovo di "The Donald" e la dura realtà


«È per diritto del nostro destino manifesto diffonderci e possedere l’intero continente, che la Provvidenza ci ha dato per lo sviluppo di un grande esperimento di libertà e di autogoverno federato». Così il giornalista e sostenitore del Partito democratico John Louis O’Sullivan nel suo saggio del 1834 dall’eloquente titolo di Annexation coniava quell’espressione – Destino manifesto, in inglese Manifest Destiny – che pian piano diventò un’ideologia condivisa, che combinava elementi di nazionalismo con la presunzione di un eccezionalismo americano permeato di un’ostentata superiorità culturale (ma diciamo pure etnica, visto che si riferiva essenzialmente al ceppo anglosassone), da cui derivava la convinzione che gli Stati Uniti fossero destinati a estendersi dall’Atlantico al Pacifico.
Due secoli scarsi più tardi il concetto ritorna nelle parole di Donald Trump: «Gli Stati Uniti – dice al momento dell’insediamento come 47mo presidente e Commander in Chief – si considereranno di nuovo una nazione in crescita, con l’aumento della ricchezza, l’espansione dei territori, la costruzione di città, l’aumento delle nostre aspettative, per portare la nostra bandiera in nuovi bellissimi orizzonti. E perseguiremo il nostro destino manifesto fino alle stelle, lanciando gli astronauti americani a piantare la bandiera a stelle e strisce su Marte». La Groenlandia, Panama, il Canada, il Golfo del Messico ribattezzato Golfo d’America, il pianeta Marte. Sono solo alcune fra le più eclatanti linee-guida dell’agenda geo-galattica di Donald Trump che rimandano a una concezione del mondo che credevamo superata dalla Storia. Vana illusione, mentre si riaffaccia prepotente – non soltanto in America, anche a Mosca, Pechino, a Teheran, a Istanbul, dovunque vi sia uno spazio appetibile – una nozione sorta all’epoca di Napoleone III, che d’abitudine chiamiamo imperialismo. Niente di nuovo sotto il sole. Un “destino manifesto” come quello resuscitato da Trump se l’erano già attribuito gli ateniesi guidati da Pericle durante la Guerra del Peloponneso, ma gli stessi persiani concepivano l’espansione nell’Egeo e verso l’India come un prolungamento naturale dell’impero di Dario e poi di Serse. Sul quale posò poi le sue mire Alessandro il Macedone. Conquistare terre, divorare lande è sempre stato il motore della Storia. Lo avevano fatto gli imperi romani e dopo di loro i mori.
Quando verso la fine del XVII secolo l’imperatrice Caterina ordinò al suo protetto, il conte Grigorij Aleksandroviè Potëmkin, di garantire al già vasto impero russo un conveniente sbocco nei mari caldi, il condottiero fondò per lei la città di Kherson, creò il porto di Sebastopoli in Crimea e soprattutto diede il nome a un villaggio turco sul Mar Nero vicino alla foce del Dnepr che chiamò Odessa. Per non deludere le aspettative della zarina che aveva intrapreso un viaggio per ammirare le sue nuove conquiste, Potëmkin giocò sul sicuro, costellando il tragitto di Caterina di quinte di cartapesta con finti pastori e pescatori che da allora finirono per essere chiamati con dispregio “Villaggi Potëmkin”. L’ossessione per lo sbocco nei mari caldi è all’origine del Great Game, quella lunga – e ben lungi dall’esser conclusa – partita a scacchi fra l’impero britannico e quello russo (e poi sovietico, e di nuovo russo, come si è visto oggi).
Dalle triremi di Salamina all’impero romano al Great Game fra l’impero britannico e la Russia degli zar poco è cambiato. Gli imperi hanno sempre bulimia di impero. A volte quasi per capriccio, come nel famigerato “Scramble for Africa”, la corsa coloniale delle grandi potenze europee – Regno d’Italia compreso trascinate nella spartizione dell’Africa (che fino a quell’epoca avevano tutti trascurato) come reazione ai famelici appetiti di Leopoldo II, l’avido sovrano belga che aveva fatto del Congo il proprio privato e sanguinario giardino degli schiavi: rileggete Cuore di tenebra di Joseph Conrad per averne contezza.
L’America non era da meno.
Nel 1803 il presidente Thomas Jefferson acquistò dalla Francia un vasto territorio noto come Louisiana pagandolo 15 milioni di
dollari, equivalenti a oltre 300 milioni di dollari odierni. La Louisiana – così venne chiamata dai francesi in onore al Re Sole – comprendeva l’intera regione centrale degli Stati Uniti fino alle Montagne Rocciose. Un territorio immenso, che raddoppiò le dimensioni della colonia americana, dando vita all’espansione verso ovest. Ma la fame di terra nascondeva anche l’accesso a importanti risorse naturali. Sessantaquattro anni più tardi gli Stati Uniti acquistarono dallo zar Nicola I l’Alaska, pagandola 7,2 milioni di dollari, equivalenti a circa 141 milioni di dollari odierni. Un’inezia per il presidente Andrew Johnson, considerando il ricco bottino che questo land grabbing d’antan comportava: l’Alaska traboccava di oro, petrolio e gas naturale.
L’Africa di oggi non fa eccezione. Ciascuna potenza vi esercita una propria versione dell’imperialismo. La Russia, piantando basi navali aggiudicandosi fette preziose della costiera mediterranea, ma soprattutto investendo e penetrando un po’ dovunque grazie ai colossi petroliferi, minerari e d’armamenti; la Cina, con il collaudato soft power che le ha consentito di acquistare enormi lotti di terra completando con maggior delicatezza rispetto alla brutalità di Leopoldo la caccia ostinata a terre rare e minerali indispensabili per il futuro ipertecnologico che si preannuncia. Perfino la jihad dal Mali al Corno d’Africa agguanta come può enormi lembi di terra, così come dispute sanguinose ma esclusivamente legate al profitto (un imperialismo senza ideologie) divampano in Sudan e Nigeria. Non illudiamoci. Il Nuovo ordine mondiale crea nuovi appetiti riesumando vecchie parole. Dalle sponde turbolente dell’inquieta Germania rimbalzano termini che credevamo sopiti e addirittura sepolti, come Vaterland – “terra dei padri”, con accezione più densa ed evocativa rispetto a Heimat (la Patria) o Mutterland (madrepatria) o Remigration (remigrazione) – adottati dalla leader di Alternative für Deutschland Alice Weidel, cui si attende prima o poi la resurrezione del termine Lebensraum, lo “spazio vitale”, ovvero il “diritto naturale” delle nazioni ad espandersi in territori vicini a spese di altre. La domanda si ripresenta: che cos’è l’imperialismo? Ma forse è un quesito pur esso superato. Come superato è il modello geopolitico teorizzato da Henry Kissinger nel suo World Order, persuaso che l’Occidente uscito dalla Pace di Westfalia del 1648 che aveva concluso la Guerra dei Trent’anni si fosse plasmato sull’uguaglianza legale degli Stati sovrani che coesistono basandosi sul non intervento negli affari interni degli altri.
Due guerre mondiali e una Guerra fredda non sono bastate a dissuaderci. In compenso torna a galla la Dottrina Monroe, che consente agli Stati Uniti di intervenire negli affari dei Paesi latinoamericani in caso di “flagrante e cronica cattiva condotta”. Il copyright è di Theodore Roosevelt, ma The Donald l’ha immediatamente fatto suo. Tempi nuovi. E un incerto futuro.