Domenicale, 26 gennaio 2025
Memoria, il nuovo significato dell’antisemitismo
Magro, nervoso, con due occhi mobili che, una volta incrociati era difficile dimenticare, Jean Améry (1912-1978) sceglieva con cura le parole. Anche a costo di lunghe pause, preferiva riflettere prima di pronunciare una frase, come se si trattasse di intraprendere ogni volta un ripido sentiero di montagna, da cui sarebbe stato difficile, e faticoso, tornare indietro.
Chi voglia ascoltare la voce, e incontrare la fisionomia di Améry ha disposizione una toccante intervista, registrata in tedesco nel 1975. Anche se non si capisce la lingua, e il caldo accento austriaco dello scrittore rimane indecifrabile, la sua febbrile ansia di comunicare, di dire e di ridire, riesce a raggiungerci, come una richiesta accorata di attenzione e di complicità. Jean Améry si è nutrito di solitudine, e di solitudine è morto, suicida, nel 1978. Dovunque abbia dimorato, ha sperimentato l’abbandono di chi si sente diverso, qualsiasi cosa faccia e dica. Diverso per poco, per un soffio, un dettaglio. Ma un soffio decisivo, inesorabile.
Uno dei modi, per comprendere un simile senso di lontananza, è leggere La mia ebraicità, il breve scritto del 1978 ora incluso nella raccolta Il nuovo antisemitismo, che esce per Bollati Boringhieri nella traduzione di Giulio Schiavoni. Améry ricorre a una parola composta tedesca, usata di frequente nel primo Dopoguerra, oggi caduta in disuso: «Uno come me, che in precedenza non era mai vissuto fra ebrei, adesso era attorniato esclusivamente da ebrei, ognuno dei quali era costretto dalla società a pensare solo alla propria ebraicità». Per riprendere il gergo di allora, adesso essi formavano la Schicksalsgemeinschaft, ossia la «comunità voluta dal destino». Doversi sentire ebreo in negativo, per un destino non voluto, questa è stata la solitudine di Jean Améry.
Nato a Vienna, col nome di Hans Meyer, vissuto in Austria, emigrato in Belgio per sfuggire ai nazisti, catturato nel 1943 e deportato ad Auschwitz, Améry visse per lo più a Bruxelles dopo la sua liberazione dal lager, il 15 aprile 1945. Celebrato e tradotto negli anni 60, per un libro esemplare sulla deportazione – pubblicato in italiano con il titolo Intellettuale ad Auschwitz – osteggiato nel decennio successivo anche per le sue posizioni di sostegno a Israele, Améry si tolse la vita in un albergo di Salisburgo il 17 ottobre 1978. Una “comunità di destino”, la sua, avvolta solo dal dolore e dalla morte? Niente affatto, poiché alla sorte egli seppe chieder conto. O perlomeno, fu capace di subissare il proprio fato ebraico di domande, di dubbi, di rivendicazioni. Che lo si voglia o no, il nuovo antisemitismo di cui scrive Améry negli anni 70 del secolo scorso è legato a Israele.
Nel ricordare il senso di vuoto patito durante l’internamento in Francia, in attesa della deportazione, Améry scrive: «Mi imposi di provare un senso di solidarietà con ogni ebreo. Eravamo già rinchiusi in un ghetto che era molto simile a quello in cui oggi il mondo ha confinato il piccolo Stato di Israele». Parole impopolari allora, quando la contestazione studentesca relegava Israele tra gli agenti imperialisti. E frasi, queste di vicinanza allo Stato ebraico, che suonano oggi fastidiose a molti. «L’unico legame tra me e la maggior parte degli ebrei di tutto il mondo – continua Améry – è una solidarietà che da tempo non considero più un dovere, ovvero la solidarietà con lo Stato di Israele. Non che vorrei vivere lì … Né approvo tutto ciò che viene fatto lì». Eppure, oltre ogni distinguo e ogni critica per i governi di allora, e innanzitutto contro Menahem Begin, Améry seppe esprimere una propria soggettiva, ineludibile convinzione: «L’esistenza di Israele è indispensabile per tutti gli ebrei (ebrei veri e propri, persone classificate come tali, e così via), ovunque essi risiedano». Da qui discende il messaggio del libro: «Che cosa dice il nuovo antisemita? Qualcosa di estremamente semplice e anche plausibile a uno sguardo distratto: che lui non è quello di cui lo accusano, non è un antisemita, ma un antisionista!».
Cinquant’anni più tardi, le convinzioni di Améry possono sembrarci ingenue. Che non siano però inattuali, lo dimostra un saggio recentissimo di Valentina Pisanty, Antisemita, una parola in ostaggio. Ostaggio di chi? Pisanty non ha dubbi. Sono le destre xenofobe, alleatesi con il solito Benjamin Netanyahu a essersi impossessate dell’epiteto “antisemita”, usandolo come merce di scambio per rifarsi una verginità filo-ebraica. «I termini dell’accordo sono semplici – scrive Pisanty – supporto incondizionato alle politiche delle destre israeliane contro l’immunità da ogni accusa di razzismo e antisemitismo. Una visita ufficiale a Yad Vashem (il Memoriale della Shoah a Gerusalemme), specie se accompagnata da espressioni di dura condanna nei confronti degli attuali nemici dello Stato ebraico, è sufficiente per ripulire l’immagine pubblica di qualsiasi leader xenofobo». L’ipotesi è netta, ed è destinata a sollevare più di un dubbio. Assai discutibile mi pare l’idea che la “presa in ostaggio” dell’antisemitismo si sia avvalsa, in maniera sistematica, della definizione che del fenomeno ha dato, nel 2016, l’IHRA, l’International Holocaust Remembrance Alliance, un’organizzazione intergovernativa che conta decine di Paesi membri.
Secondo Pisanty, la Working definition, che tocca in vario modo l’atteggiamento verso lo Stato di Israele, sarebbe stata promossa «con il pretesto di fungere da dispositivo di raccolta dei dati sull’andamento dell’antisemitismo nel mondo, mentre di fatto viene sistematicamente impiegata come strumento repressivo contro chiunque esprima posizioni radicalmente ostili a Israele». Prevenire, e combattere l’antisemitismo non può essere certo un “pretesto”. Come farlo, e farlo davvero, è il problema del presente. E del nostro futuro.