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 2025  gennaio 26 Domenica calendario

I 50 anni del Köln Concert


L’estate scorsa sulla nostra isola amena è spuntato un pianoforte e in quattro e quattr’otto si è organizzata la serata: chi incaricato degli arancini, chi del vino. A me toccava suonare. Vado a provare lo strumento e scartabellando tra le carte poggiate sopra trovo con stupore la partitura del Köln Concert, l’album per pianoforte più venduto di tutti i tempi. Il concerto si tenne cinquant’anni fa, il 24 gennaio 1975 all’Opera di Colonia, Keith Jarrett aveva 29 anni e in teatro, fuori orario, era quasi notte, entravano in via eccezionale il jazz e tanti giovani in jeans e maglietta.
Data la solennità della sala, Jarrett aveva chiesto un Bösendorfer Imperial, 97 tasti e 8 ottave complete, ben 9 note in più del solito nei bassi, potente, suono caldo e corposo ricco di armonici, realizzato a suo tempo per le esigenze di Ferruccio Busoni alle prese con le trascrizioni di brani bachiani per organo. Aveva già ispirato Bartók, Debussy e Ravel. Giunto poche ore prima del concerto, notte insonne per il viaggio in Renault 4 da Zurigo con il suo discografico Manfred Eicher e il solito atroce mal di schiena, Jarrett trovò invece lo strumento usato abitualmente in teatro in prova, poco più lungo della metà dell’altro, pedali scassati, accordatura inadeguata, squilibrio tra i registri, suono metallico. Rifiutò di esibirsi ma dopo una sistemata alla meccanica, sebbene anche al ristorante fosse andato tutto storto, infine si convinse, essendo prevista la registrazione del Live. Certo doveva adattarsi e giocare la musica sulle qualità sonore di quel che c’era. Trovò ispirazione nella melodietta con cui il teatro annuncia l’inizio dei concerti, il pubblico ne ridacchiò e iniziò un flusso inarrestabile di groove e vamp, ostinati di lunghi minuti su un solo accordo o un paio di armonie alternate, sonorità modali e moti swingati, idiomi blues e gospel ma anche classici e debussiani. Evitò i registri più deboli, gli acuti, i gravi e diversi tasti neri a centro tastiera, con melodie seducenti come solo lui. Come tirar fuori il meglio da una situazione di difficoltà: il Köln Concert diventò poi caso studio per le lezioni di management del «Financial Times».
A fine anno venne pubblicato il disco e il successo commerciale fu clamoroso: paradossalmente, il brano di pura improvvisazione più amato di sempre divenne un classico a tutti gli effetti, fino ad essere appunto addirittura trascritto nota per nota, per le assillanti richieste di chi desiderava rieseguirlo, ma ci volle tempo perché Jarrett lo approvasse, nel 1991, l’anno del Vienna Concert, forse il suo solo più classico. Buffo che le sezioni IIa IIb e IIc corrispondano al disco più che al concerto, la seconda parte divisa in due per necessità dell’LP più l’encore finale.
«Le migliori improvvisazioni sono quelle che vengono quando non ho nessuna idea», diceva Jarrett. L’essenziale per lui è sempre stato essere accorti, come intendevano Gurdjeff e i sufisti, percezione e consapevolezza: creare un’improvvisazione significa ascoltare e sondare all’istante le vie perseguibili aggredendo con ferocia il momento successivo. L’arte nasce quando senti che le dita suonano come vuoi tu, e mentre chi esegue un brano scritto riproduce un oggetto e potrebbe anche farlo pigramente, senza necessariamente sentire, nell’improvvisazione bisogna per forza essere all’erta. Jarrett non aspira affatto a suoni rassicuranti o gradevoli, mostra che si può dire molto con poche note e pochi gesti, quelli giusti, e cerca oltre. È uno dei pochi di pari provenienza classica e jazz, le cui esecuzioni di Bach, Mozart e Šostakovi? sono apprezzate quanto quelle con l’American e lo European Quartet o Miles Davis.
Se nell’improvvisazione si ha la libertà di suonare ciò che si vuole e non sono possibili revisioni, è curioso pensare di renderla una musica scritta. Quando scrivi una composizione hai tutto il tempo per decidere cosa dire. Se un’improvvisazione nasce in un certo momento e in un certo luogo, non dovrebbe forse andarsene come è arrivata? Se ne possono trascrivere le note ma non è pensabile di fissarne il senso, nel libero fluire delle parti che si sommano l’una dopo l’altra, l’atmosfera creata attimo dopo attimo. Come una fotografia, o un poster di un Van Gogh, se ne può riprodurre giusto l’immagine, perdendo la consistenza. Da non trascurare il fatto che in tante sue forme l’improvvisazione è stata spesso intesa come attività collettiva nell’orizzonte di un mutamento sociale o politico, l’ascolto di un brano improvvisato e quello di un brano scritto potrebbero avere presupposti differenti. Ma la Musica è quella scritta o quella udita? È il testo silenzioso immaginato dal compositore o quel che viene trasmesso all’ascoltatore dall’interprete? Trascrivere le note, cercando di fissare l’opera al di là del tempo e dello spazio e renderla ripetibile, significa togliere un po’ di magia alla musica o portare la magia a tutti? Un brano nato come estemporaneo diventa forse universale se riletto da altri, ognuno a modo suo, condizionati dal loro gusto? Nel mio piccolo, a primo acchito scandalizzata dall’idea, è stato meraviglioso addentrarsi tra i righi al calar del sole sul mare, gli isolani hanno molto gradito e io mi sono poi procurata lo spartito magari per una prossima occasione.
Certo è che da Frescobaldi a Mozart a Liszt l’abilità di improvvisare alla tastiera, su temi propri o di altri, era requisito indispensabile per ambire a un incarico professionale, e che gli studi classici di oggi potrebbero arricchirsi considerevolmente con la pratica improvvisativa. Utile prenderne a prestito la prontezza e la spontaneità. Il mio maestro consiglia sempre di suonare fingendo di vedere la musica per la prima volta, di stupirsi, di rileggerla ogni volta in modo nuovo, celando di averla studiata, ristudiata e straeseguita. Un ascoltatore cosciente entrerebbe, come in un concerto improvvisato, dritto nel processo creativo, condividendo la creazione all’istante, dove ogni suono è presente, vivo, è energia pura.