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 2025  gennaio 26 Domenica calendario

I genitori di Regeni: l’incontro con l’ambasciatore egiziano


FIUMICELLO (UDINE) – «Ma dove vogliono andare?». «Figuriamoci se riusciremo mai a scoprire chi è stato». «Calerà il silenzio». Sono alcuni dei commenti che, in questi nove anni, Paola e Claudio Regeni hanno dovuto leggere e ascoltare molto spesso. Sono tutti conservati sul web che, per fortuna, non dimentica. Chi li ha scritti, però, aveva torto. Il silenzio non ha vinto, come ha dimostrato ieri la loro Fiumicello: un palazzetto dello sport pieno di amici, ragazzi, politici (Elly Schlein, Roberto Fico), attori, cantanti, scrittori (Pif, Marco Paolini, Daniele Silvestri, Lella Costa, Gherardo Colombo) tutti insieme per portare avanti la voce di Giulio nove anni dopo il suo omicidio.«Ci dicevano: non si arriverà a nulla. E invece siamo qui, in quello che sarà un anno importantissimo: l’anno della verità e della speranza».Nel 2025 ci sarà la sentenza di primo grado nel processo a carico dei quattro agenti della National security, il servizio segreto civile egiziano, accusati di aver sequestrato, torturato e ucciso Giulio tra il 25 gennaio e il 5 febbraio 2016.Signori Regeni, ci credevate?«Sì. E più passava il tempo e più ci abbiamo creduto perché abbiamo sentito di non essere soli. Accanto a noi c’erano i cittadini. C’era la nostra avvocata, Alessandra Ballerini.C’erano le forze di polizia e la magistratura, nella quale abbiamo sempre avuto la massima fiducia. I fatti ci stanno dimostrando che abbiamo fatto bene».Lo avete detto e scritto nel libro con l’avvocata Ballerini, “Giulio fa cose”: non ci piace essere trattati come i genitori di una vittima.«Questa è la nostra battaglia di cittadini perché qui in gioco non c’è il dolore ma i nostri diritti. E oggi quel sentimento è ancora più forte. Quando giriamo per l’Italia ci fermano per dirci grazie, ci chiedono di continuare a combattere. Ecco perché tutto questo lo facciamo per noi, per Giulio, certo. Ma lo sentiamo anche come un dovere di cittadini: perché non accada più».Non è stato sempre facile.«Non lo è. Abbiamo visto persone su cui anche Giulio riponeva la sua fiducia, non esserne degne. O amministrazioni comunali litigare per lo striscione giallo che chiede “Verità e giustizia” per Giulio come se la storia di nostro figlio appartenesse a una parte e non fosse, invece, un patrimonio collettivo. Questo ci offende».E poi ci sono stati i depistaggi. Ma la giustizia poi arriva. A maggio abbiamo fatto un incontro davvero particolare».In che senso?«Eravamo appena saliti sull’aereo che da Trieste ci avrebbe portato a Roma, dove eravamo diretti per seguire un’udienza del processo. E, in fondo, abbiamo visto seduto l’ambasciatore egiziano in Italia. La nostra avvocata gli aveva inviato 55 Pec e lui non aveva mai risposto. Il caso ci ha dato l’opportunità di parlargli».Che avete fatto?La signora Paola sorride. Poi racconta.«L’ho raggiunto: lei è l’ambasciatore egiziano? Gli ho chiesto. Mi ha risposto: sì, con chi parlo?».Non vi aveva riconosciuti?«No. Siamo i signori Regeni, i genitori di Giulio, gli ho detto. Era sorpreso che l’avessimo riconosciuto: per anni è stato il portavoce di Al Sisi, sapevo benissimo chi fosse…».Che gli ha detto?«Parlavo ad alta voce. Gridavo perché tutti potessero sentire. L’aereo è sprofondato in un silenzio assoluto, per rispetto a noi. L’ambasciatore ha ammesso che sapeva benissimo che ci fosse il processo in corso, a Roma.Che nessuno dica più, quindi, che gli imputati non ne sono a conoscenza».Avete dovuto testimoniare in aula. Ricordando quei momenti al Cairo, compreso il riconoscimento del corpo. “Vostro figlio è un martire” vi disse una suora.«La nostra è una battaglia faticosa. Ma inevitabile. Il processo ci fa rivivere il dolore: quei giorni al Cairo quando speravamo di trovare Giulio ancora vivo, la batosta che abbiamo avuto quando abbiamo capito ce non c’era più niente da fare. Ma il processo ci dà anche soddisfazioni.Perché è emerso chiaramente quello che noi già sapevamo e su cui, però, nessuno può più dire bugie: e cioè che Giulio era un ricercatore. Nient’altro che un ricercatore».Dite: la nostra battaglia è perché non accada più. Ma quella di Cecilia Sala, la giornalista arrestata in Iran, o di Alberto Trentini, il cooperante fermato in Venezuela, sono storie di giovani italiani privati dei propri diritti davanti ai regimi.«Siamo vicinissimi alla famiglia di Alberto Trentini e ci auguriamo che torni a casa presto, sano e salvo. Capiamo le storie di questi ragazzi e ragazze, professionisti seri, che vanno in giro per il mondo per confrontarsi, conoscere. Sono costruttori di pace che alle volte si trovano in situazioni difficili perché non ovunque vengono rispettati i diritti umani. Dobbiamo ringraziarli e stare loro vicini».