la Repubblica, 26 gennaio 2025
La nuova Destra a 30 anni dalla svolta di Fini a Fiuggi
La storia è fatta di equivoci e di rimbalzi beffardi, con la dovuta quota di delusioni e amarezze. Ma a Fiuggi, almeno nel ricordo, filò tutto così liscio che al dunque accadde ciò che doveva accadere: auto-sradicamento, sdoganamento, “abbandono della casa del padre” e oplà, trasfigurazione del Msi in An più una micro-scissione in nome della nostalgia.Nessuno nega che sotto le volte del Palazzo delle Terme si consumò un dramma insieme intimo e corale. «Il fascismo è come Dio, non si può mettere ai voti!» gridò sul palco Pino Rauti, ricurvo su se stesso. Al che Gianfranco Fini, giovane leader dell’abiura salvifica, replicò dandogli dell’ amish. Vero è che la mestizia urologica del luogo e la velocità del tutto ebbero la meglio sulla retorica, per cui a mente fredda Marcello Veneziani scrisse che il medesimo fascismo era stato «espulso come un calcolo renale», mentre il futuro ministro Giuli preferì «spazzatovia in fretta e furia come segatura». Così alpathos restano relegate alcune pagine di un romanzo di Angelo Mellone, oggi super dirigente Rai, nelle quali il più disperato dei protagonisti si prende il lusso di affrontare brutalmente donna Assunta Almirante, allora madrina di Fini, e in quella sede la copre di sputi perché corresponsabile di quella “mattanza ideologica”.Ma il punto è che forse proprio le ideologie, ormai esauste, stavano venendo meno. Nell’autunno del 1989 la Bolognina dei comunisti, nell’inverno del 1995, a cinque anni di distanza compressi e acceleratissimi, la Predappina dei neofascisti, svolta quasi più antropologica e scenografica che ideale, politica e culturale. Tutto blu e azzurro, “Cresce la nuova Italia” il generico slogan, nei manifesti due manone a proteggere la fiamma, peraltro già astutamente ridimensionate nel merchandising congressuale, completo di peluche (“Fiammino” e“Fiammetta”).Con disappunto Isabella Rauti notò a Fiuggi «signore impellicciate e fanciulle siliconate», ma se è per questo c’erano anche cardinali opportunisti, nobili impiccioni, avidi palazzinari e una spolverata di generone dei circoli tiberini. Un combinato di proiezioni ottiche e video emozionali culminò nell’immagine di Almirante che salutava. Freddo come sempre, Fini parlò a lungo della crisi di governo da poco conclusasi con l’arrivo di Dini a Palazzo Chigi.È dunque minimo il legame tra Fiuggi e l’imprevedibile presente dei Fratelli d’Italia. Giorgia Meloni nella sua autobiografia ne parla lo strettissimo indispensabile, del resto era iscritta da appena due anni, forse nemmeno era lì. Eppure, al netto dei palpiti e delle scenate, tra memoria e sogno la sensazione è che anche in quel mondo di ex reietti che l’esclusione dai circuiti aveva mantenuto puri, ecco, anche per loro la sostanza politica stava diventando leggera, evanescente, inconsistente, sempre più mediatica e quindi condannata a vivere di apparenze, trasformismi, caratteri, prestazioni, insomma la Seconda Repubblica.Così forse è per questo che restano in mente il saluto romano di Baghino, il sussiego di Fisichella, gli occhietti furbi di Tatarella, i pugni sul banco di Teodoro Buontempo, la smania di La Russa nell’acchiappare il microfono e non mollarlo più, insieme al ricordo di alcune boccaccesche conversazioni telefoniche captate dai primi telefonini al Grand Hotel delle Fonti e finite sulle pagine verdine diCuore.A un certo punto la platea votò a grande maggioranza un emendamento che faceva propri i valori dell’antifascismo. E di nuovo non se ne vorrebbe sminuirne la portata, né addebitare al congresso responsabilità di tutti i partiti, però resta il dubbio che a Fiuggi gli ex missini avrebbero approvato qualsiasi proposta. Per cui un po’ fecero fatica, un po’ fecero finta, alcuni capirono, altri continuarono a collezionare busti del duce, risentimento, invettive da osteria, caserma o curva da stadio senza sapere che sarebbero tornate utili sui social trent’anni dopo. Quasi mai infatti la storia si cancella, né va sempre d’accordo con gli anniversari.