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 2025  gennaio 26 Domenica calendario

I 90 anni di Corrado Augias

UZIONE RISERVATAil personaggio
l’intervista
«Mia nonna ebrea convertita
ascoltava in ginocchio Pio XII
Il fascismo non può tornare
Temo più Musk di Trump»
di Aldo Cazzulloe Tommaso LabateI 90 anni di Corrado Augias: non mi fa paura la morte ma il morire
Corrado Augias, novant’anni. Qual è il primo ricordo della sua infanzia?
«Mia nonna. Ricordo la sua stanza piccola, scura; e questa vecchina dentro il letto, così minuta che mi pareva una bambola. Mi faceva paura e non facevo nulla per nasconderlo. Soprattutto quando mi voleva abbracciare, e queste sue braccia piccolissime venivano fuori dalle coperte verso di me come se fosse dentro una specie di sortilegio. Poverina, temo di averla anche offesa con questa mia fobia».
Sua nonna era ebrea, vero?
«Era una donna di origine ebraica che si era convertita per sposare mio nonno. Dopo aveva preso a vivere la sua religiosità in maniera molto marcata. Un giorno la vidi che ascoltava in ginocchio davanti alla radio il discorso di Pio XII. La questione degli ebrei come popolo deicida, che dopo Giovanni XXIII per fortuna nessuno ripete più, all’epoca doveva pesarle. E lei, ma questa è una mia interpretazione, espiava in quella maniera. Le pareti della sua stanza erano piene di immagini sacre».
Come si erano conosciuti sua madre a suo padre, ufficiale dell’Aeronautica?
«A un circolo del tennis. Mio padre era un bell’uomo. Lo rivedo in Libia con l’uniforme estiva bianca, abbronzato, che si dava le arie tipiche di chi ha successo con le donne».
Che ricordi ha della Libia coloniale?
«Il primo è il muretto della nostra casa a Tripoli, sul mare: saltato quel muretto, la battigia era a due passi. Il secondo ricordo è di Bengasi, dove ci spostammo quando mio padre venne trasferito in Cirenaica: il pavimento di una stanza venne percorso da una legione di scarafaggi che mia mamma colpiva con una scopa. E poi le urla della pattuglia di ascari che tutte le sere, al tramonto, faceva un giro di ronda».
Suo padre era a Tobruk quando venne abbattuto l’aereo di Italo Balbo.
«Era stata una giornata di forte ghibli, tutti erano molto nervosi, anche perché c’era stata un’incursione inglese. Le armi della contraerea, che di solito in quei casi venivano tenute coperte per essere riparate da questo vento sabbioso, erano state scappucciate. A un certo punto si palesò questo aeroplano di Balbo, non annunciato: non ne riconobbero le insegne la sagoma, lo scambiarono per un aereo inglese e lo abbatterono».
Suo padre ebbe mai il sospetto che c’entrasse Mussolini?
«Dai suoi racconti, per quello che poteva sapere lui, no: la morte di Balbo era stata un errore. In una successiva incursione inglese su Tobruk, papà venne ferito e rimpatriato. Lo rividi a Roma, all’ospedale militare del Celio, trasformato, rinsecchito: sembrava una mummia nera. Dopo l’8 settembre si unì alla Resistenza, nel gruppo dei monarchici guidato da Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, poi trucidato alle Fosse Ardeatine dopo essere stato torturato in via Tasso. La cosa incredibile è che proprio lì c’era il collegio cattolico dov’ero stato mandato dai miei genitori. Un solo muro separava due mondi: da un lato quello in cui vivevo io, all’apparenza normale; dall’altro le urla dei prigionieri torturati dalla Gestapo».
Voi bambini chiedeste mai da dove provenissero quelle urla?
«È tutto come avvolto in un sogno, in cui a questo punto non so più se i ricordi sono reali o figli di quello che ho scoperto dopo, da grande. Nel giugno del 1944, con gli americani alle porte di Roma, la situazione precipitò. Nel collegio c’era una grande sala dormitorio, con due file di letti, come negli ospedali; il letto del prefetto era su una pedana sopraelevata, circondata da una tenda che ne preservava, come dire, l’intimità. Quando si sentivano queste urla, dal letto lui ci gridava “pregate, pregate!”. Dalla casa dei miei genitori, a Porta Latina, si vedeva il profilo dei Colli Albani illuminato dalle vampate dell’artiglieria. Ho ritrovato la stessa scena in un film; il regista per forza doveva averla vista dal vivo, come me».
Che ricordo ha dell’arrivo degli americani?
«Il primo uomo nero, un soldato americano su un carrarmato. E la prima tavoletta di cioccolata, avvolta in una scatola di cartone cerato, che pareva un oggetto sacro. All’altezza di San Saba, mentre la sbocconcellavo, incontrai un signore che timidamente me ne chiese un pezzetto. Tirò fuori un temperino, ne ritagliò un quadretto, mi ringraziò».
Il fascismo aveva davvero il consenso della maggioranza degli italiani?
«Fino all’Etiopia, come dimostrava la facilità con cui Mussolini governava, probabilmente sì. Ma attenzione, il consenso è una cosa attiva, che si misura con lo slancio delle persone singole. Non va confuso con l’apatia di chi pensava che le cose gli andassero tutto sommato bene, che lo stipendio c’era, il tram arrivava...».
Il fascismo può tornare?
«Io non ci credo. Ma sono convinto che la democrazia, almeno per come l’abbiamo conosciuta dal 1945 a oggi, cambierà. Anzi, sta già cambiando, è già cambiata. Basta vedere gli Stati Uniti, il nostro principale alleato: nel duello inevitabile che prima o poi vedrà contrapposti i due amici di oggi, Donald Trump ed Elon Musk, sia che prevalga il primo sia che prevalga il secondo, questa trasformazione avverrà. Prima negli Usa, dopo anche in Europa».
Le fa più paura Trump o Musk?
«Musk, non c’è dubbio. Di Trump ormai conosciamo tutto. Dell’altro no».
In che modo cambierà la democrazia?
«Provo a fare un esempio concreto. Avete presente il premierato a cui Giorgia Meloni teneva tantissimo? Ecco, adesso sembra che non ci badi più tanto. Un po’ per ragioni tattiche, certo; ma soprattutto perché, secondo me, quando prendi l’aereo senza dirlo a nessuno per andare a Mar-a-Lago da Trump a sbrogliare la matassa internazionale che riguardava anche la liberazione di Cecilia Sala, ecco, capisci che il premierato c’è già, e non hai certo bisogno di una legge costituzionale per metterlo in pratica».
Che giudizio dà di Giorgia Meloni?
«È brava. Ha una determinazione ferrea figlia di un lunghissimo esercizio, altrimenti una ragazzina piccolina non si sarebbe fatta largo e non avrebbe finito per primeggiare in un partito di gente votata al culto della virilità, come molti neofascisti; e ha sagacia politica, cosa che le permette di tenere a bada due vicepremier politicamente famelici come Tajani e Salvini».
Nella Seconda Repubblica nessuno ha vinto le elezioni due volte di fila. Meloni può riuscire nell’impresa in cui hanno fallito tutti, Berlusconi compreso?
«Si capirà quest’anno. Lei ha tre nemici: l’Europa, il deep state, il debito pubblico. Se supera questi tre scogli, può arrivare alla fine della legislatura e vincere le prossime elezioni».
Mangio poco, bevo poco, faccio un po’ di ginnastica, il giusto Il Dio del Catechismo è una favola per bambini. L’aldilà non esiste: se ci fosse qualcosa, lo avremmo già scoperto
Nel 2027 sarà Meloni contro Schlein?
«Col vostro permesso, passerei alla prossima domanda».
Non pensa che la Schlein possa battere la presidente del Consiglio?
«Seguo semmai con interesse il tentativo cattolico di mettere in piedi un centro federatore, capace di aggregare un’alternativa a questo centrodestra e soprattutto di trovare, di fronte a una personalità come quella di Giorgia Meloni, un’altra personalità così forte per provare a batterla alle elezioni. Meloni è riuscita a trasformare in forza alcune sue debolezze: certe citazioni pseudo-colte che ogni tanto tira fuori, l’eloquio romanesco che ogni tanto le scappa, ecco, tutto questo ne ha fatto una donna del popolo. C’era Giuseppe Conte, con la formula dell’avvocato del popolo; e per un periodo decisamente più lungo, al di là della Manica, Tony Blair, che si impose come uomo del popolo di fronte alla rigidità della regina Elisabetta. A sinistra, almeno per ora, non vedo nessuno che venga percepito come “di popolo”».
Perché in Italia la sinistra non vince mai?
«Le persone normali vogliono vivere tranquille, avere uno stipendio decoroso, fare sport il sabato, portare i bimbi allo zoo; e la destra incarna meglio la medietà di questo tipo di vita. Poi c’è un’altra ragione: la sinistra aveva propugnato ideali immensamente alti ma troppo complicati da raggiungere, che sono stati travolti da una società che si è trasformata prima che potessero essere realizzati. Diciamoci la verità: rispetto a mezzo secolo fa, quanto sono attrattive oggi idee nobili come la fraternità universale e la giustizia sociale, rispetto a cose pratiche tipo quelle che ciascuno di noi può realizzare con lo smartphone in mano?».
Che ricordi ha dell’esperienza da parlamentare europeo col Pds?
«Era il 1994, poco dopo la vittoria di Berlusconi. Fu Walter Veltroni a chiedermi di candidarmi perché, dopo anni di Telefono Giallo su Rai 3, ero molto popolare. Esperienza entusiasmante perché fu la legislatura dell’euro, ma da non ripetere: la politica o la fai da dentro o, da indipendente com’ero io, ha poco senso».
Il primo voto?
«Al primo Partito radicale, nel 1958. Era il partito di Pannunzio, di Villabruna, di Eugenio Scalfari. Negli anni ho votato il Partito socialista e, poi, il Pci».
Con Scalfari avrebbe fondato «Repubblica», nel 1976.
«Il giornale nasceva socialista, prima che Bettino Craxi prendesse il posto di Francesco de Martino. Poi Eugenio capì che Repubblica poteva e doveva avere un altro ruolo: prendere il Pci, fargli sciogliere il nodo che lo teneva legato all’Unione Sovietica e portarlo in Europa. Praticamente, accelerare quel processo che la segreteria di Berlinguer aveva avviato con Aldo Moro».
A proposito di Moro: sarebbe stato giusto trattare con le Brigate Rosse per liberarlo?
«No. Per una ragione molto semplice, su cui Scalfari si trovò a convergere con tutto il gruppo dirigente di Repubblica. Se per liberare Moro fossero stati messi in libertà otto brigatisti, che cosa sarebbe successo se la settimana successiva un gruppo criminale avesse sequestrato un cittadino comune, chiedendo la scarcerazione di otto criminali? Si sarebbe dovuto fare la stessa cosa, no? E che fine avrebbe fatto il nostro Stato di diritto?».
Cos’ha la Rai del governo Meloni di diverso da quella delle lottizzazioni della Prima Repubblica?
«Ero entrato in Rai per concorso, nel 1960, e la conosco bene. Quella di un tempo era un’occupazione di posti, quella di oggi è un’altra cosa: i dirigenti attuali vogliono fare un cambio di narrazione culturale. Una volta ciascuno faceva la sua, di narrazione: Agnes faceva quella della Dc a Rai 1, Guglielmi e Curzi quella del Pci a Rai 3, i socialisti la loro a Rai 2. Oggi ho l’impressione che si cerchi di fare di tutta la Rai una narrazione a senso unico».
Perché il suo Telefono giallo aveva così tanti spettatori?
«Perché lavoravamo su quello che i giovani di oggi chiamano cold case, i vecchi casi spesso irrisolti. E quindi avevamo a disposizione tonnellate di documenti, sentenze, atti istruttori, verbali di polizia. Oggi si lavora su un caso in tempo reale, sulla base essenzialmente di ricostruzioni giornalistiche fatte a caldo. Con tutto il rispetto per il nostro mestiere, non è la stessa cosa».
Come si arriva a novant’anni?
«Mangio poco, bevo poco, faccio un po’ di ginnastica, il giusto. Anche se Andreotti diceva che tutti i suoi amici che facevano sport erano morti prima di lui».
Lei ha scritto libri su Gesù. È sempre convinto che Dio non esista?
«Il Dio del catechismo, a mio modesto parere, è una favola per bambini. Quello che giudica e manda, che non si muove foglia che lui non voglia, per carità, sarebbe una figura tremenda: Auschwitz l’ha voluto lui? No, dai...».
L’aldilà come lo vede?
«Non esiste. Se ci fosse qualche cosa, in qualche modo l’avremmo già scoperto».
La morte le fa paura?
«So di essere entrato nel decennio di cui non vedrò la fine ma, al tempo stesso, darei dell’insolente a uno che mi fa notare che ho novant’anni, visto che mi dimentico anch’io di averli. Tempo fa, ho fatto compagnia a un grande amico negli anni della sua malattia. Andavo da lui, parlavamo tanto, ricordavamo i vecchi tempi, ascoltavamo Mozart. Poi, a un certo punto, lui s’è stancato e ha detto basta. Con la moglie hanno chiamato un certo medico. La medicina può tutto: una certa forte dose di morfina rende molto dolce e molto rapido un percorso che può essere molto duro e molto lungo».
Lei se ne dispiacque, della scelta del suo amico?
«No. Perché anche io non temo la morte; temo il morire. Infatti ho chiesto alla moglie del mio amico il numero di cellulare di quel medico. Sta qua, dentro il mio telefono, se serve».