Il Post, 25 gennaio 2025
Cos’è esattamente un “ordine esecutivo”
Nel suo primo giorno da presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato decine di ordini esecutivi su temi diversissimi, tra cui la sospensione dell’obbligo di vendita di TikTok, l’introduzione di politiche molto restrittive sull’immigrazione, il blocco delle assunzioni in quasi tutte le agenzie federali e il ritiro degli Stati Uniti dagli accordi sul clima di Parigi.
Gli ordini esecutivi sono provvedimenti che hanno effetto immediato con cui un presidente introduce delle modifiche a livello federale senza dover passare dall’approvazione del Congresso. Nella pratica si tratta di direttive rivolte a enti subordinati al ramo esecutivo, come le agenzie federali, alle quali si ordina di fare qualcosa o di limitare l’applicazione di qualcosa che è già in atto. Sono uno strumento molto comune, usato da quasi tutti i presidenti statunitensi. Soprattutto nella prima metà del Ventesimo secolo venivano approvati di continuo: nei 12 anni in cui è stato presidente (1933-1945) Franklin D. Roosevelt ne approvò 3.721, ma anche Woodrow Wilson, che è stato in carica per due mandati (1913-1921), ne ha emessi 1.803.
Data la velocità con cui entrano in vigore, è diventata ormai prassi che un presidente ne firmi almeno qualcuno subito dopo essersi insediato, come strumento per mostrare al proprio elettorato che sta mantenendo fede alle promesse fatte in campagna elettorale. In molti casi vengono usati anche per annullare ordini esecutivi del presidente uscente: nei suoi primi giorni da presidente Trump ha emesso degli ordini esecutivi per annullare 78 di quelli firmati dal suo predecessore Joe Biden negli ultimi quattro anni, molti dei quali a loro volta annullavano alcuni ordini emessi da Trump durante il suo primo mandato.
Nonostante possano portare a delle modifiche importanti e concrete, il loro impatto ha comunque dei limiti. Con gli ordini esecutivi il presidente non può, per esempio, modificare la Costituzione o assegnarsi nuovi poteri. I tribunali hanno il potere di bloccare gli ordini esecutivi se ritengono che un presidente li stia usando per rivendicare la propria autorità su un tema che non gli compete. Spesso in questi casi i ricorsi arrivano fino alla Corte Suprema, che esprime un giudizio vincolante.
Uno degli ordini esecutivi più discussi fra quelli firmati da Trump martedì, per esempio, è stato quello che negava la cittadinanza a chi nasceva negli Stati Uniti da persone migranti senza permesso di soggiorno. Questo ordine è in contraddizione con il 14esimo emendamento della Costituzione, che dice che «tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e soggette alla loro giurisdizione sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono». Per questo giovedì un giudice federale del distretto occidentale dello stato di Washington ha bloccato l’ordine, definendolo «palesemente incostituzionale».
Ci sono diversi precedenti. Durante la guerra di Corea, che si svolse fra il 1950 e il 1953, il presidente Harry Truman cercò di nazionalizzare le acciaierie del paese, ma la Corte Suprema decise che Truman non poteva requisire una proprietà privata per motivi di sicurezza nazionale senza l’autorizzazione del Congresso.
Il Congresso non può bloccare a monte un ordine esecutivo, ma può successivamente approvare delle leggi che ne rendano molto difficile la sua applicazione, per esempio negando i fondi alle agenzie federali che devono occuparsene. In alcuni rari casi il Congresso ha anche passato delle leggi che bloccavano direttamente l’ordine: nel 1992 per esempio il presidente George H.W. Bush firmò un ordine esecutivo per creare una banca di tessuti fetali per la ricerca medica, ma il Congresso approvò una legge che decretava che l’ordine non avesse «alcun valore legale». È una mossa che politicamente può portare a un deterioramento dei rapporti fra il presidente e il Congresso, dato che il presidente può a sua volta mettere il veto alla legge, che poi può essere annullato nuovamente da una maggioranza di due terzi del Congresso.