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 2025  gennaio 25 Sabato calendario

Cos’è questa storia dei PFAS nell’acqua potabile

La pubblicazione di un rapporto dell’organizzazione ambientalista Greenpeace sulla presenza nell’acqua potabile in Italia dei PFAS, sostanze particolarmente resistenti e inquinanti, ha suscitato non poche preoccupazioni per la salute di tutti. Il documento è stato ampiamente ripreso dai giornali spesso con titoli allarmati, se non proprio allarmistici, che hanno contribuito a generare ulteriori apprensioni e un po’ di confusione intorno a un argomento molto delicato e già discusso da tempo. Si è parlato di “emergenza”, benché non ce ne sia realmente una, dando a tratti l’impressione che la questione sia trascurata dalle istituzioni, italiane e dell’Unione Europea, anche se non è così.
 
I PFAS, o sostanze perfluoroalchiliche, sono un gruppo estremamente ampio di sostanze impiegate in molti ambiti industriali, dalla produzione di pentole antiaderenti alla costruzione di protesi mediche, passando per la realizzazione di componenti meccanici per il settore automobilistico e per la produzione di materiali resistenti agli incendi e agli agenti atmosferici per l’edilizia. Furono sviluppati a partire dagli anni Quaranta del secolo scorso e se ne conoscono ormai più di 4mila tipologie, suddivise in sottogruppi a seconda delle loro caratteristiche chimiche e dell’ambito di impiego. PFAS è quindi un termine ombrello per descrivere sostanze anche molto diverse tra loro, eppure con una caratteristica in comune.
 
 
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Nell’ampio universo dei composti prodotti dall’industria chimica, i PFAS sono infatti tra le sostanze più resistenti e durature mai realizzate. La loro forza sta nella presenza di uno o più legami chimici tra carbonio e fluoro, tra i più resistenti che si possano realizzare. La capacità di sopportare forti sollecitazioni, come gli sbalzi di temperatura, è un vantaggio per alcuni tipi di materiali, ma è anche un problema perché rende queste sostanze molto inquinanti: se finiscono nell’ambiente lo contaminano per moltissimo tempo ed è difficile smaltirle. Questa caratteristica è valsa ai PFAS il nome di “forever chemicals”, cioè sostanze persistenti.
 
I PFAS possono finire nell’ambiente come conseguenza dei processi industriali, per esempio nella gestione scorretta delle acque di scarico, oppure a causa dell’usura di alcuni materiali che li contengono o ancora della dispersione di rifiuti. Sono pressoché ovunque e la loro presenza viene spesso riscontrata nelle falde acquifere, e quindi nell’acqua potabile, dove si accumulano nel tempo. Per capire quanto una zona è interessata dal problema si procede quindi con analisi a campione delle falde o direttamente dell’acqua di rubinetto, in modo da comprendere la concentrazione dei PFAS. Come per altre sostanze, più è alta più viene tenuta sotto controllo per i potenziali effetti sulla salute.
 
 
Rappresentazione schematica del ciclo dei PFAS nell’ambiente (Environmental Health)
A oggi le conseguenze per la salute umana, ma anche di altri animali e delle piante, sono difficili da indagare sia per l’ampia varietà di PFAS esistenti, sia per la presenza di altri inquinanti nell’ambiente che possono falsare analisi e ricerche scientifiche. Alcuni PFAS sono noti per non provocare danni rilevabili, mentre altri gruppi di queste sostanze possono avere degli effetti per accumulo, se cioè la loro concentrazione aumenta nel tempo negli organismi che non riescono a smaltirli, oppure per una importante tossicità. Si sospetta che alcuni PFAS possano influire sulla riproduzione o che possano comportare danni allo sviluppo del feto durante la gravidanza. Altri PFAS sono invece noti per essere cancerogeni e altri ancora sono studiati per i loro potenziali effetti sul sistema endocrino umano, responsabile attraverso gli ormoni della regolazione di molte funzioni dell’organismo.
 
Quando ci sono incertezze sugli effetti di particolari sostanze viene solitamente applicato un principio di precauzione e di gestione del rischio, riducendo il più possibile l’esposizione a quelle sostanze stesse. La Commissione Europea è intervenuta più volte sia per avviare programmi di rilevazione della presenza di PFAS nell’ambiente, così da quantificare il problema, sia con provvedimenti e proposte per imporre restrizioni nell’impiego dei PFAS considerati più a rischio. La direttiva europea 2020/2184 ha fissato un limite complessivo di 100 nanogrammi per litro (ng/l) per 20 PFAS specifici.
 
In Italia, l’attività di controllo viene effettuata dalle agenzie regionali per la protezione dell’ambiente (Arpa), che si fanno carico di raccogliere campioni di acqua e di misurare la concentrazione di PFAS e altre sostanze, seguendo specifici protocolli. Finora lo hanno fatto con frequenza e modalità diverse perché in Italia la legge che applica la direttiva europea sarà in vigore solo dal prossimo anno. Non c’è quindi un unico sito per consultare facilmente i dati raccolti dalle varie regioni e il loro reperimento può quindi essere difficoltoso.
 
Per il suo rapporto Greenpeace ha raccolto 260 campioni dagli acquedotti in 235 comuni italiani, tra settembre e ottobre del 2024, e li ha fatti analizzare per rilevare le concentrazioni di alcuni tipi di PFAS. In nessun comune, tranne quello di Arezzo, è stata rilevata una concentrazione al di sopra dei 100 nanogrammi per litro, imposto come limite dalla legge basandosi sul parametro “somma di PFAS” che in Italia prende in considerazione 24 tipi diversi di queste sostanze.
 
 
(Greenpeace)
Come prevedibile, sono comunque emerse concentrazioni relativamente alte in alcune aree del Nord Italia, in particolare in Veneto e in parte della Lombardia e del Piemonte, zone dove ci sono molti impianti industriali e dove si sa da tempo di una maggiore presenza di PFAS. In Veneto i comuni interessati sono una trentina nella provincia di Vicenza e nelle aree confinanti delle province di Padova e Verona. Su quella contaminazione, nota da molti anni, ci sono iniziative giudiziarie nei confronti soprattutto di un’azienda, per avvelenamento delle acque, disastro ambientale e gestione di rifiuti non autorizzata.
 
Da anni l’Arpa del Veneto effettua controlli e analisi delle acque, proprio per valutare l’estensione del problema e soprattutto verificare che non aumentino ulteriormente le concentrazioni di PFAS. Lo fa raccogliendo una grande quantità di campioni in aree diverse anche delle stesse zone, quindi con un livello di dettaglio maggiore rispetto a quanto sia stato fatto da Greenpeace. Per la maggior parte dei comuni, Greenpeace ha infatti utilizzato un unico campione, quindi con risultati meno rappresentativi rispetto a ricerche con più prelievi e dati.
 
Non è quindi sorprendente o inatteso che ci sia una «diffusa presenza di questi composti inquinanti nelle reti acquedottistiche», come dice il rapporto, ma ciò non equivale automaticamente a una “emergenza”. Come abbiamo visto c’entrano la concentrazione di queste sostanze e il fatto che esista una soglia di sicurezza entro cui essere esposti. Prendendo per buoni i dati di Greenpeace, comunque, solamente un comune supererebbe i limiti nella concentrazione di PFAS che saranno in vigore dall’anno prossimo.
 
Sul rapporto si è però generata una certa confusione perché lo stesso documento indica che le soglie previste dalla direttiva europea non sono adeguate, e che dovrebbero essere riviste riducendole sensibilmente. Su questo aspetto c’è effettivamente un confronto in corso, che finora ha riguardato soprattutto le istituzioni scientifiche europee che forniscono i dati ai politici per decidere che cosa fare, come l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA).
 
Proprio partendo da una nuova valutazione del rischio dell’EFSA, alla fine dello scorso anno l’Agenzia europea dell’ambiente ha diffuso una propria analisi, invitando la Commissione europea a rivalutare i limiti. La stessa Commissione ha chiesto un parere all’Organizzazione mondiale della sanità sui PFAS, visto che il problema è globale e viste le decisioni assunte da altri paesi sui limiti e sulle soglie di sicurezza.
 
L’EFSA indica ora una “dose settimanale tollerabile” (DST) di quattro specifiche tipologie di PFAS pari a 4,4 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo. Il limite è riferito alle singole persone e non alla concentrazione di queste sostanze nell’acqua come previsto dalla direttiva: è quindi difficile mettere a confronto i due limiti, ma la soglia dell’EFSA è sicuramente inferiore rispetto a quella della direttiva. Facendo riferimento a quest’ultima, la quantità di comuni sopra la soglia aumenterebbe sia che si tratti delle più precise rilevazioni delle Arpa sia di quella più approssimativa di Greenpeace. La maggior parte dei comuni continuerebbe comunque a essere ampiamente sotto la soglia indicata dall’EFSA.
 
La Commissione europea sta raccogliendo informazioni e pareri dall’OMS, dall’EFSA e da altre istituzioni e non è escluso che in futuro i limiti fissati dalla direttiva 2020/2184 vengano rivisti. Intervenire su questi aspetti come sulla riduzione nella produzione di PFAS non è però semplice, sia per motivi pratici legati ai processi produttivi sia per i grandi interessi economici, come ha dimostrato di recente il progetto giornalistico internazionale Forever Pollution Project. Un gruppo di 46 giornalisti di 16 paesi diversi ha rivelato le pressioni e le attività di lobby esercitate per contrastare l’approvazione di leggi troppo restrittive sui PFAS.
 
Oltre a ridurre la nuova produzione di queste sostanze, ci si deve comunque confrontare con lo smaltimento di quelle già nell’ambiente, in particolare nei cosiddetti “hotspot”, cioè nelle zone dove maggiore è la loro concentrazione come il Veneto per l’Italia. Le attività di bonifica sono costose e non sempre sufficienti, a causa dell’ampia diffusione nel suolo e nei corsi d’acqua, ma si stanno anche sviluppando nuovi sistemi per provare a rompere quei legami chimici che rendono così resistenti le catene di queste molecole. Negli ultimi anni si sono fatti alcuni progressi, ma le ricerche sono ancora in corso e sarà necessario molto tempo prima di avere qualche applicazione pratica.