il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 2025
I tormenti di Elly Schlein
Il parlamentare dem, uno che di legislature ne ha viste diverse, sfoggia un sorriso felino: “Come al solito Dario Franceschini gioca su due piani: da un lato spiega ai dem degli ultimi convegni che un partito dei cattolici non ha senso. Ma dall’altro fa capire a Elly Schlein che ora non è tempo di pensare alla sua candidatura come premier…”. Può essere soprattutto questo il senso dell’intervista dell’ex segretario dem a Repubblica, nella quale teorizza che è necessario “marciare divisi per battere la destra, andando alle urne ognuno per conto proprio” e che “l’Ulivo non tornerà”.
In sintesi, l’ennesima delle mille spine per Schlein. Franceschini le fa sapere che sarebbe urgente un accordo “solo su un terzo dei seggi, quelli dei collegi uninominali”. Poi si tireranno le fila, anche su chi dovrà eventualmente sedere a Palazzo Chigi, come lascia intendere chiedendo di non “avvitarci nella discussione sulle primarie”. Sillabe che mettono subito in ebollizione il Pd: anche perché Franceschini, l’eterno maggiorente che ha segnato la fortuna come la disgrazia di molti leader dem, parla assai di rado. “Se ha scelto di farlo, vuol dire che il momento è delicato” è la lettura diffusa nel partito. Ergo, d’ora in avanti Schlein dovrà essere ancora più cauta. Perché è vero, l’ex ministro fu uno dei primissimi fautori della sua ascesa alla segreteria, “e la sostiene ancora” giurano voci a lui vicine (lo stesso Franceschini avrebbe rassicurato ieri la leader). Ma la sua intervista, ufficiosamente fatta contro l’ipotesi di “federatori” del centrosinistra, è disseminata di cortesi paletti. A conferma che questo 2025 sarà un anno in cui Schlein dovrà fare massima attenzione a schivare botole. La prima, quella della frenesia di certi cattolici dem nell’invocare attenzione e peso, ha provato a chiuderla proprio Franceschini, sostenendo che non serve “né una terza gamba esterna al Pd, né un partito dei cattolici, che stanno ovunque”. Un freno a Paolo Gentiloni e Graziano Delrio, a naso, e perfino per Romano Prodi, ormai apertamente critico con la segretaria. Come ai liberali dem raggrumatisi a Orvieto. La teoria è planare su un partito centrista a trazione civica, pare. Però poi c’è tutto il resto, cioè il Pd che fatica a ritrovarsi. L’esempio più fresco è il referendum sul Jobs Act, legge renzianissima che Schlein casserebbe volentieri. Ma ogni giorno un dem prende le distanze.
L’ultima in ordine di tempo ieri è stata l’ex segretaria Cisl Annamaria Furlan, ora senatrice del Pd, su Qn: “I due referendum sull’articolo 18 sono inutili”. Tra ex (ma non troppo) renziani e riformisti vari, a remare contro sono in parecchi.
Però non è certo l’unico problema di Schlein, che dovrà affrontare un altro anno elettorale. Andranno al voto sei regioni, e la partita più scivolosa è in Campania, feudo di quel Vincenzo De Luca che non può più vincere, ma può farti perdere, eccome. “Tratterà l’addio” pensano e soprattutto sperano in molti. Però la matassa è intricata. “Il problema lo deve risolvere il Pd” ripetono come un mantra i Cinque Stelle, che rivendicano il candidato, ossia Roberto Fico. La segretaria dem ha la stessa idea: stima e sente regolarmente l’ex presidente della Camera, e ritiene la sua candidatura preziosa per rompere certi equilibri di potere in regione. Ma i tavoli sono tanti, e le insidie di più. Per questo Conte è nervoso, e ai suoi lo dice da settimane: “Sulla Campania rischiano di mandarci a sbattere”. Tradotto, è in gioco anche il già non facile rapporto tra l’ex premier e Schlein. Senza dimenticare le possibili difficoltà in Toscana e a Genova, dove il M5S ha già proposto come candidata sindaca l’ex europarlamentare Tiziana Beghin. E senza poter sottovalutare le convulsioni centriste. Con Matteo Renzi che scalcerà, ancora, contro i veti dei 5Stelle, e Carlo Calenda immarcabile.
Nell’attesa, sul Pd incombe sempre la rogna del Salva-Milano, la legge invocata dal sindaco di Milano Giuseppe Sala che i dem avevano contribuito ad approvare alla Camera tra diffusi mal di pancia interni e le proteste di 5Stelle e Avs. Ora il testo che spalanca le porte ai grattacieli è in Senato, dove il Pd sta facendo di tutto per lasciarlo a prendere polvere. Però Sala, già aspirante federatore, sostenitore del terzo mandato in solidarietà di De Luca, ha già minacciato le dimissioni, come rivelato dal Fatto. Comunque una nuvola, per i dem. Destinati sempre a ballare su armi e politica estera. Eterna croce, per il Pd che prova costantemente a divorare se stesso.