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 2025  gennaio 25 Sabato calendario

Marco Risi si racconta

Marco Risi, 19 prove da regista, molti premi e una memoria che non teme i decenni: «Avevo 7 anni, Il film si intitolava Le fatiche di Ercole e stavo facendo una passeggiata sulla spiaggia del lido di Cincinnato. A un certo punto svoltai a destra e in fondo, non troppo lontano, vidi una specie di Partenone con un attore, Steve Reeves, bello, sudato e muscoloso che, legato alle colonne con delle catene, compiva uno sforzo immane per liberarsene. A un tratto vidi il Partenone crollare, ma senza rumore. Facendo qualche passo in più scoprii l’incanto e la finzione del cinema: era di polistirolo». 
Chi l’aveva accompagnata in spiaggia? 
«Gina, quella che un tempo avrei definito la nostra adorata cameriera». 
Un tempo? 
«Oggi si direbbe collaboratrice domestica, come di un cieco che è non vedente o diversamente abile. Mi adeguo, ma resto perplesso e penso che la metà della cinematografia e della letteratura, assecondando l’ossessione della purezza etica, non esisterebbero. Norman Mailer sarebbe bandito, Henry Miller cacciato a calci in culo». 
Come ci siamo arrivati? 
«Con l’ossessione di diventare sempre più buoni, più giusti e più corretti. Ma è un’illusione, anche un po’ ipocrita: come traguardo ha il bene, ma in realtà mira al conflitto. Come se non bastassero le guerre nel mondo, finiamo per farci la guerra anche dentro casa. Con il vicino, con l’amico che la pensa diversamente da noi, con chi non parla il linguaggio che preferiamo. È un peccato, il politicamente corretto. Un’involuzione». 
Lei ne è stato al riparo. 
«Mio padre non sognava che seguissi la sua strada e non teneva particolarmente alla mia presenza sul set. Ci capitai per caso a 11 anni: il film era La marcia su Roma. Gassman e Tognazzi arrancavano in camicia nera per ripararsi dai sassi tirati dai contadini di Maccarese e io mi resi conto che quei sassi erano di gomma. Poi Tognazzi sbagliò il nome di Gassman, lo feci notare a mio padre e lui, infastidito disse: “Stai buono, non rompere i coglioni, tanto si doppia tutto”. Quindi, pensai, non solo i sassi sono finti, ma si possono cambiare anche le parole, si può correggere quella battuta che hai detto male, si può riscrivere la vita. Il cinema ha questo di meraviglioso rispetto alla vita, non ferisce e non fa male». 
Le pause? 
«Mi sembrava si perdesse un sacco di tempo. Durante i tempi morti osservavo tutto quello che succedeva. Faceva un gran caldo, mi girai verso la segretaria di edizione che si chiamava Costanza ed era molto carina. Accanto a lei, Santoni, il direttore di produzione, un bruto con il ghigno e la voce roca da fumatore, decise di darmi la prima lezione della mia educazione sentimentale. Mi prese la mano e la mise sulla testa di Costanza. “Hai sentito che caldo che fa, Marco? Hai sentito?”. Io cercavo di sfilare la mano, rispondevo sì ed ero molto imbarazzato. Premette ancora più forte sui capelli e poi, prima di liberarmi, con quella voce squarciata, Santoni mi gracchiò nell’orecchio una cosa terribile: “Mò t’ho fatto senti’ quelli de sopra, dopo te faccio senti’ quelli de sotto”. Se ne andò compiaciuto, tossendo divertito». 
Che educazione ha ricevuto? 
«Attenta anche se non convenzionale, io e mio fratello, potevamo fare il bagno al mare anche dopo aver mangiato, mentre gli altri bambini erano bloccati dai genitori che li ammonivano sul pericolo della congestione. Io mi chiedevo: i miei genitori sono dei disgraziati che cercano di liberarsi dei figli oppure sono troppo apprensivi gli altri? Ho optato per la seconda ipotesi». 
Suo padre? 
«Non c’era tanto, ma quando c’era si sentiva: caustico e divertente. Se non eri attrezzato alla dialettica e a quello spirito, è vero, poteva farti rimanere molto male. Una volta venne a vedermi giocare a pallone. Non fui un fenomeno. A fine partita venne e mi disse: “batti bene i falli laterali”. Nient’altro». 
Aveva punte di cattiveria? 
«Era sarcastico e, nel profondo, giusto. Con lui potevi parlare veramente di tutto. Ci ha educato a cercare di capire il senso della vita. Non voleva due figli viziati e magari coglioni. Ci ha insegnato a non prendere le cose troppo sul serio, mentre la comicità, quella sì, andava presa sul serio. Aveva le sue idee, ma rifiutava qualsiasi forma di impegno politico. Era ateo, non battezzato, ma lasciò che andassi a scuola dei preti. Non c’è stato un solo giorno della sua vita che sia venuto a prendermi o l’abbia visto all’uscita». Ricorda scatti d’ira? 
«Una sola volta, sarà stato il ’57. Mi aveva regalato un fischietto e io mi ero accorto che questo fischietto aveva un potere meraviglioso. Affacciato su Viale Parioli, dalla finestra del bagno, avevo preso a fischiare alle macchine che passavano creando il caos e bloccando la strada. Suonò alla porta un commissario di polizia, poi sentii la voce di mio padre che gridava il mio nome. Aveva capito subito che ero stato io. Mi portò davanti al poliziotto e con un gesto plateale gettò il fischietto nella spazzatura. Il commissario guardò con ammirazione il regista Dino Risi che sapeva cosa significasse certezza della pena e non si fermava neanche davanti al figlio di otto anni. Poi salutò. Mio padre mi diede un calcio in culo e uno schiaffo. «Non lo fare mai più». 
Cos’è stato il 68 per lei? 
«Non lo so, stavo sulla Cassia». 
La battuta è formidabile. «Qualcuno me la invidia. È una risposta stupida, ma divertente che diedi a una giornalista che mi chiedeva di quegli anni. E non era lontana dalla verità un po’ perché abitavo davvero sulla Cassia e un po’ perché in effetti il mio impegno politico non esisteva. Compravo un sacco di giornali, ma guardavo i fumi delle barricate da lontano e me ne fregavo. Forse avrei fatto bene a partecipare al ’68 o forse no, ma dei sessantottini, con qualche ragione, ho sempre diffidato». Si considera un diffidente? «Guardo le cose con un occhio critico e mi fido poco di quello che mi dicono. Da bambino era diverso, mi fidavo: quando mio fratello mi diceva di mettere il dito nel catrame bollente per vedere se fosse caldo, io il dito ce lo mettevo». 
Chi era suo fratello Claudio, già regista della Terza C? «Era una persona buona. Molto spontanea e istintiva, più fragile di me e quindi più esposta alle violenze della vita. Soffriva Claudio e soffriva più di me. Negli ultimi anni avevamo chiuso i nostri rapporti per qualche stupidaggine, ma da piccoli eravamo molto uniti. Anche se la nostra non è mai stata una famiglia alla “volemose bbene”, sapevamo come dimostrarci affetto senza abbracci, effusioni o troppe parole. Quando ne usi poche o quando usi quelle giuste arrivi al cuore. Hans Castorp e suo cugino Joachim, ne La montagna incantata di Mann, non si chiamano neanche per nome, ma si amano e si intendono a meraviglia». 
Lei come si è difeso dal dolore? «Sono stato depresso. È una grande sofferenza, fa un male cane e per provare a uscirne serve un lavoro enorme. C’è voluto tempo per reagire alle cose e per pensare ad altro come suggerì mio padre a Gassman, uno che la depressione la conosceva bene». 
Cosa gli suggerì? «Gassman stava molto male e mio padre, gli diede il consiglio più stupido del mondo, quello che nessun depresso vorrebbe ascoltare, ma a ben vedere anche il più sensato. “Non ci pensare” gli disse. Che è un assurdo perché pensare al proprio sprofondo è la condizione nella quale chi soffre è precipitato dalla mattina alla sera. Vuoi uscirne e c’è sempre qualcosa che ti riporta nel tuo dolore». 
Dino e Vittorio avevano lavorato fianco a fianco per tutta la vita. «Sono cresciuti e invecchiati insieme. Si sono amati e si sono anche violentemente odiati trovando poi la forza di riabbracciarsi. Che era morto Vittorio, a mio padre, lo dissi io. Ci fu il lungo silenzio di chi perde per sempre una parte di sé». 
Se Sordi non avesse detto no, Gassman non avrebbe interpretato “Il Sorpasso”. 
«"Mi faccio un culo così per tutto il film e poi il merito se lo pija quell’altro!”. Disse così, Alberto. Rifiutò la parte e si mangiò le mani per tutta la vita. E pensare che con papà, Sordi, che io ho amato molto, aveva fatto il più bel film della sua carriera: Una vita difficile». 
Lei con Gassman avrebbe voluto lavorare. 
«Non feci in tempo, ma poco prima che fosse assalito dalla sua terza depressione, quella che lo portò via, gli proposi un film proprio su quello. Ci vedemmo e parlammo della malattia. A un certo punto mi disse: “Ma sai che ogni tanto per la depressione avverto un po’ di nostalgia?” Come se quel sentimento così forte, così profondo e violento, ma così anche intenso potesse mancare persino a una testa tanto acuta. Ci vedemmo qualche mese dopo, stava male. Gli ricordai quella frase e lui, con una malinconia struggente, mi disse: “Si dicono tante stronzate."». 
Che cos’è per lei la nostalgia?
«Mi ricordo tante cose e mi provocano una profonda nostalgia. La nostalgia è un sentimento doloroso perché ci rammenta che certi momenti sono irripetibili e durano un istante. Cechov diceva di essere stato felice una volta sola, per pochi secondi, sotto un ombrellino. Quando ci penso mi viene in mente una ragazza svedese con una sua amica. Noi tre, seduti in un ristorante di piazza Navona. Mi dissi: “adesso sono felice”. Durò come i tre secondi di Cechov».
Arrivato a 73 anni cosa ha capito dell’amore?«Che è un terreno impraticabile. Gli inizi sono sempre belli, infuocati e meravigliosi. Dopo? Dopo non lo so. Ho promesso l’amore eterno e poi un istante dopo me ne sono pentito. Ci sono coppie che restano insieme per tutta la vita? Siamo nel campo dei miracoli o dei santissimi compromessi. Già è così difficile andare d’accordo con sé stessi, figuriamoci con l’altro». Quante volte è stato innamorato nella vita? «Cinque? Sei? È difficile dirlo. Lo domandai anche a mio padre e lui mi rispose “sempre”. Secondo me non era vero, ma la risposta era comunque migliore di quella di Sartre che sosteneva che all’amore non si potesse dedicare più di una settimana di tempo». È stato geloso? «A volte sì, ma per orgoglio perché la gelosia è una forma di orgoglio mascherata: “Ah, ma lei potrebbe preferire quello lì?” ti dici “Ma è impossibile, io sono molto meglio"». Il nostro destino è la solitudine? «Più vado avanti nella vita e più mi sento solo, anche perché tutti i miei amici sono morti. Non è bello. Come non è una bella cosa che sia arrivato quasi ai miei 74 anni e ancora non abbia capito, nonostante sia un uomo curioso, se gli altri mi piacciano veramente. A volte sì, altre meno. Ma ormai mi basta uno sguardo per capire chi ho davanti e a volte quel che vedo mi fa fuggire, chiudere in me stesso o rispondere in maniera antipatica. Quando c’è stata la pandemia, per dire, ero felicissimo. Tutti barricati in casa, la mia condizione ideale». In questa sorta di misantropia rivede suo padre? «Mio padre si trasferì al residence Aldrovandi per starci una settimana. E ci rimase per trent’anni. Ogni tanto chiamava mia madre chiedendole di poter rimettere piede a casa sua: «Claudina, che ne pensi se torno?». Lei, che invece aveva capito tutto, fu molto coraggiosa e disse no». Perché fu molto coraggiosa? «Giusta osservazione: sarebbe stata coraggiosa se gli avesse detto di sì: avrebbe visto l’inferno. Mio padre con lei era insopportabile e non tanto per i tradimenti, a quell’epoca ci si svolazzava sopra, ma per il fatto che era un criticone, un rompicoglioni, uno a cui strappare un complimento era quasi impossibile». A lei, per i suoi film, li faceva? «Al primo mi disse “sei un professionista che sa dove si mette la macchina da presa” e era tutto meno che un complimento. Sul secondo tacque e sul terzo, che come i primi due aveva come attore Jerry Calà ma era andato male al botteghino, fu spiritoso: il film cala, almeno all’attore togliete l’accento». Anche suo padre, dopo tanti capolavori, aveva fatto dei film meno riusciti. «Alcuni, come Il commissario Go gatto, probabilmente non erano neanche così brutti. Ma ho scelto, scientemente, di non vederli, così come mi accadde da bambino con Marcellino pane e vino. Avrebbe dovuto essere il primo film della mia vita, ma arrivati davanti al cinema e vedendo il manifesto gridai che non sarei mai entrato perché c’era Gesù Cristo in croce e un bambino in lacrime che lo guardava dal basso. Mi faceva paura». 
Cosa ricorda della sala? «In piazza Euclide, al cinema della parrocchia, proiettavano un film al giorno. A volte uscivo entusiasta, altre deluso. Mi portavo sempre la fionda e con la plastilina verde facevo delle palline che tiravo sullo schermo».
Sogna molto? «Dormo poco e male. Mi sveglio in piena notte e mi riaddormento. Sogno, ma è difficile che ricordi cosa. Ultimamente, un paio di volte, ho sognato Berlusconi. Sto entrando in una stanza, è notte e una luce che entra da una finestra lo illumina. Lui è seduto su una sedia, solo, come credo in fondo sia sempre stato». 
Le era simpatico? «Essendo un perfetto eroe della commedia all’italiana in qualche modo mi incuriosiva e anche se ero infastidito da tante cose e dall’idea che mezzo paese, dal nulla, avesse preso a idolatrarlo, tutto l’odio che la sinistra vomitava su di lui mi è sempre sembrato eccessivo e strumentale». 
Berlusconi non c’è più. 
«Siamo cresciuti con lui e adesso, anche se vorrei sventolare un esorcismo, vecchio sono diventato anche io». 
"Lo sai qual è l’età più bella?”, diceva Gassman a Trintignant nel Sorpasso: «Quella che uno ha giorno per giorno”. 
«Mi piacerebbe dire che mi sento ancora un ragazzino, ma non è vero. Invecchiare è una fregatura. Guardo le cose con un distacco maggiore, con un entusiasmo diverso, con un cinismo che però, se mi guardo con onestà, mi è sempre appartenuto. Giovane non sono mai stato, neanche a 15 anni. Mio padre mi chiamava il vecchietto o il pensatore. Magari non pensavo a un cazzo, ma davo l’idea di farlo per far sì che mi notasse». 
Come ti piacerebbe essere ricordato fra trent’anni?
«In realtà non me ne frega granché, non ci sarò più. Qualcosa mi piacerebbe farla ancora, altrimenti che l’oblio cada tranquillamente sulle mie ceneri»