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 2025  gennaio 25 Sabato calendario

Parla Antonio Pappano

«Non sono mai stato uno che si guarda indietro, e nemmeno un tipo contemplativo. Sono piuttosto una locomotiva». È l’attacco, senza fronzoli e preamboli, dell’autobiografia di Antonio Pappano (1959), il direttore d’orchestra che per 18 anni ha guidato l’Orchestra di Santa Cecilia di Roma, e la condurrà di nuovo il 30, 31 gennaio e 1 febbraio (in programma, Notturni di Debussy e Concerto pianistico di Busoni). Per 22 anni è stato il vertice della Royal Opera House di Londra, al gala d’addio del maggio 2024 in sala c’era re Carlo III. Ora è alla testa di quel gioiello che è la London Symphony.
Pappano è un melting pot fattosi uomo essendo po’ italiano (genitori di Benevento), un po’ inglese (nacque e crebbe a Londra) e un po’ americano (negli Usa trascorse l’adolescenza e parte della giovinezza). Ci parla dalla casa in Umbria.
Da un ventennio vive tra Londra e Roma, ma per whatsapp ha scelto la foto del lago Trasimeno.
«Sono molto legato a questo luogo. Oggi è freddino, ma ho preso la partitura e sono uscito in giardino a studiare. Sto lavorando alla Sinfonia del Mare di Ralph Vaughan Williams, tutta quest’acqua mi aiuta, non è mare ma pazienza».
Da ragazzo meditava di farsi calciatore. Dall’incipit del libro la diremmo attaccante.
«Sì, ma non centrale, diciamo quello accanto, quello che corre veloce e crea l’opportunità».
Una cosa è certa. È uomo che si tuffa, pronto al rischio.
«Senza questo e la perseveranza non fai il mio mestiere».
Il primo grosso rischio?
«Lasciare l’America e tornare in Europa per imparare altre lingue, repertori, culture. Mi è andata bene. S’aggiunga il fatto che mi bastava fare il pianista e invece le cose sono andate diversamente. Avere la vita che ho è un’autentica benedizione. Tanta fatica, però quanta gioia».
La gioia di...?
«Essere davanti a un centinaio di persone e farne una squadra, anzi una comunità di orchestrali, riuscire ad arrivare al punto in cui tutti pensano la stessa cosa. Questa cosa è bellissima».
La fortuna?
«Le carriere vanno e vengono. La mia è stata consistente, ha avuto continuità e con sempre nuove avventure, l’ultima è la London Symphony».
Accoglierebbe l’avventura della direzione musicale della Scala? L’hanno assai corteggiata ma ha sempre detto no. Ora è un po’ più libero.
«Ho diretto tanta opera, per il momento ho fatto un passo indietro».
A maggio dirige La Valchiria di Wagner al Covent Garden.
«È un progetto triennale ed era difficile dire di no. Però non sto proprio pensando di dedicarmi ad altri teatri d’opera. Un teatro è fatto di tantissime persone, di plurime discipline, tutto deve essere incanalato. Dopo un incarico di 22 anni e 700 recite, dico bene, ma basta».
La grande musica, in testa il melodramma, è un mare di tragedie e sofferenze. Pesano tante emozioni negative?
«Proprio per questo alle prove sono molto spiritoso. E temo fin troppo. Questo mestiere ti pone in costante contatto con una profondità che va digerita, il che a volte crea cupezza, tristezza; la battuta liberatoria può aiutare. Così sono fatto e così voglio rimanere. Si scherza ma è chiaro che le battaglie vanno fatte assieme, la musica esige grande impegno, disciplina».
Ora che è direttore emerito di Santa Cecilia, cambia il rapporto con gli orchestrali?
«Difficile da capire. Torno una o due volte per stagione. Spero di raccogliere i frutti del mio lavoro. Mi piace l’idea di vedere gli sviluppi di un organismo che non si ferma, che risponde agli stimoli di un altro direttore musicale, tra l’altro bravo. Io sono aperto».
Nel libro ricorda che il canto è una necessità umana. Le capita di canticchiare anche musica non classica o lirica?
«Sempre, e in particolare quella della mia giovinezza, quindi degli anni Settanta, i T. Rex, per dire. Sono poi appassionato della musica americana degli anni Quaranta, di Frank Sinatra».
Sulla classica e lirica pesano annosi pregiudizi. Cosa fare?
«Chiedo sempre alle famiglie di fare uno sforzo per cercare di colmare i buchi della scuola. È importante provare cosa vuol dire tenere in mano uno strumento, cantare in un coro, ascoltare gli altri. È una bellissima lezione su come gestire la propria vita»