la Repubblica, 25 gennaio 2025
Le mani della destra sul tesoro del credito e l’obiettivo Generali
È la scalata bancaria di Stato, la saldatura tra un pezzo di capitalismo e governo per lanciare l’attacco alla galassia Mediobanca e alle Generali. È l’istituto di credito più antico del mondo, il Monte dei Paschi di Siena, già feudo della sinistra, già salvato dal crac con i soldi pubblici, che parte all’attacco di piazzetta cuccia sotto le insegne di palazzo Chigi e lancia un’offerta accolta dal gelo della Borsa.
Ma è anche Roma contro Milano. Nella capitale politica le pulsioni sovraniste della maggioranza surfano sull’onda dei capitali privati di Caltagirone e degli eredi Del Vecchio per conquistare una fetta di quel potere bancario finora sfuggito.
Nella capitale economica si sentono sotto assedio gli eredi di quell’élite che rappresentò la finanza laica per eccellenza, spesso ostile al mercato, oggi convertiti al credo anglosassone e fautori della public company, dove i soci indirizzano le strategie ma sono i manager a decidere. È la guerra dei due mondi, insomma, ed è ovviamente una guerra che punta a un bottino ben preciso: le Generali di Trieste, la compagnia assicurativa dove Mediobanca ha poco più del 13% e che gestisce oltre 800 miliardi di risparmi dei suoi clienti. Soldi che molti vorrebbero governare.
Uno scontro legittimo, con i suoi protagonisti: Francesco Gaetano Caltagirone, grande costruttore romano, collezionista di antiche monete imperiali, ha investito da tempo prima nelle Generali e poi in Mediobanca: oggi ha appena meno del 7% della compagnia e il 7,5% di piazzetta Cuccia. Accanto a lui, da anni, prima il patron di Luxottica Leonardo Del Vecchio e adesso i suoi eredi: in Generali sono a un soffio dal 10%, in Mediobanca appena sotto il 20%. Forti della loro quota complessiva, i due grandi soci, hanno a lungo cercato di entrare nella stanza dei bottoni della banca e della compagnia. Ma finora senza risultati.
Quella Mediobanca che con Enrico Cuccia fu la regista dei patti di sindacato e delle piramidi societarie, sotto la guida di Alberto Nagel si è infatti aperta al mercato e si è chiusa alle richieste dei grandi soci. La strada migliore per guidare l’istituto fuori da possibili conflitti d’interesse e assicurare soddisfazione a tutti gli azionisti – è il mantra di Nagel, da diciassette anni amministratore delegato – è quella di avere un cda il più possibile indipendente; tanto da far presentare la lista da proporre agli azionisti ogni tre anni per il rinnovo del consiglio allo stesso cda uscente. Una linea che Mediobanca ha usato in casa e che ha appoggiato anche in Generali, mentre piazzetta Cuccia cambiava pelle: non solo banca d’investimento, ma anche credito al consumo e della gestione del risparmio. Dietro lo schermo dell’indipendenza del cda – ribattono dal fronte avverso – si mantiene lo status quo :Nagel appare inamovibile e in Generali – è la tesi – continua a comandare Mediobanca.
Fin qui, appunto, sarebbe solo uno scontro finanziario. Il problema è che l’arbitro – l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni – si è messo la maglietta di una delle due squadre ed è sceso in campo. Il primo passo a inizio 2023, quando un emendamento al disegno di legge sul mercato dei capitali, presentato pone vincoli strettissimi alla lista del cda. Accolta con grande favore da Caltagirone, quella norma diventa legge.
Poi, quando il 25 novembre scorso l’Unicredit lancia la sua offerta per comprare Banco-Bpm, le cose si fanno davvero tempestose. Nei piani del governo, infatti, Banco-Bpm dovrebbe unirsi a Mps e dare vita al “terzo polo” bancario italiano, fortemente connotato in senso nazionale. Per questo il Mef ha appena venduto, a inizio novembre, le quote della banca senese eredità del salvataggio pubblico: al Banco-Bpm il 5%, a Caltagirone un altro 5%, agli eredi del Vecchio quasi il 10%. E lo stesso ministero rimane il primo azionista, con l’11,7%%. Ecco così che, quando si concretizza l’offerta di Unicredit su Banco-Bpm, il ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti annuncia subito di essere pronto a utilizzare il golden power – i poteri speciali del governo in caso di acquisizioni estere che minaccino la sicurezza nazionale – contro la banca offerente. Scarsa la portata legale dell’esternazione, forte quella politica: il governo si è visto sfumare sotto il naso l’opportunità di trasformare la banca che fu del Pci nel “suo” istituto e non è contento.
Nelle stesse settimane un altro fronte si apre: il cda delle Generali, con l’ad Philippe Donnet, studia un dossier per unire in una joint venture con i francesi di Natixis, i rispettivi patrimoni di risparmio gestito. Un’occasione da non perdere per creare un gruppo europeo che lavori su quasi 2.000 miliardi di patrimoni, sostiene Donnet, ottenendo lunedì scorso il voto favorevole della maggioranza del consiglio. No, è un esproprio del risparmio italiano, ribattono – in minoranza – i consiglieri che fanno capo a Caltagirone e ai Del Vecchio. Di nuovo da Palazzo Chigi si agita lo spettro minaccioso del golden power, mentre uno schieramento politico solidamente radicato nella maggioranza, ma che sconfina anche a sinistra, si straccia le vesti per il rischio – un rischio che non esiste, assicura Donnet – di cedere il risparmio italiano allo straniero. È il momento giusto per partire con un’operazione che provi a risolvere le cose una volta per tutte: Mps, con l’indispensabile appoggi dell’azionista pubblico, lancia un’offerta di sue azioni ai soci di Mediobanca per fondere piazzetta Cuccia nella banca senese. Deciderà il mercato, si spera. Ma intanto lo Stato è diventato banchiere d’assalto. E non è una buona notizia.