Corriere della Sera, 25 gennaio 2025
Biografia di Uto Ughi, raccontata da lui stesso
Cosa prova quando suona il violino?
«A volte una gran rottura di scatole, se non riesco a farlo perfettamente. Altre volte invece avverto l’euforia di una grande conquista. La musica per fortuna non contiene una sola emozione: c’è allegria, tenerezza, dramma. O estasi, come quando mi trovo davanti a una suite di Bach».
Qualcosa che somiglia alla felicità?
«Non si può catalogare, dipende dal momento. Cambia sempre, insieme a noi. Quello che eravamo ieri, oggi non lo siamo più». Uto Ughi, 81 anni, questa mattina terrà un concerto in Vaticano, aula Paolo VI, in occasione delle celebrazioni per il Giubileo. «Mi emoziono ancora, come no. È una componente importantissima dell’interpretazione, che altrimenti sarebbe soltanto pura tecnica, fredda».
Con il suo vero nome, Bruto, non ci ha mai fatto pace. Ha preferito toglierne metà.
«Mi chiamarono come un mio zio appena morto ad El Alamein. Non mi piaceva. Ma non gli do importanza».
A tre anni il maestro Coggi le mise in mano un violinetto minuscolo, legandoglielo al collo con una cordicella perché non cadesse.
«Ma questa è un po’ una leggenda» (ride). «Lo fece perché costava molto. Non è che ci andassi nei teatri, così. Papà era amico del primo violino della Scala, a casa venivano musicisti, facevano dei quartetti. Mia nonna era austriaca e aveva voluto che i suoi figli avessero un’educazione musicale. Per me il violino fu subito passione. Adoravo le opere, Verdi e Bellini».
Aveva un cagnolino.
«Un barboncino nero. Argo, come il cane di Ulisse. Il mio compagno di giochi. Quando è morto, avvelenato, è stata tra le più grandi sofferenze della mia vita. Quella notte ho suonato per ore la marcia funebre di Chopin e di Beethoven».
Non aveva voglia piuttosto di giocare a pallone?
«L’ho fatto. Sono stato anche uno sciatore appassionato sulle Dolomiti. Tifoso di Inter e Milan e della Pro Patria di Busto Arsizio. Come ora di Sinner, esempio di virtuosismo nel tennis. Vedere palleggiare Maradona e Pelè era arte, i loro ricami sul campo capolavori di intelligenza».
La musica è sacrificio.
«Però non mi ha tolto nulla. Quando si ama qualcosa, lo si fa senza pensare. Se diventa una palla al piede allora è meglio smettere».
Richiede rinunce.
«Lei mi crede quasi un asceta, non lo sono mai stato! (ride di cuore). Adoro la vita, le donne, la bellezza, la fantasia, tutte cose irrinunciabili. Altrimenti finirei come Diogene, chiuso nella botte».
E applicazione.
«Al massimo studiavo 3 o 4 ore al giorno, lasciandomi il tempo per leggere o viaggiare. I grandi concertisti avevano una disciplina quasi monacale. Oggi cinesi e giapponesi si esercitano anche 10 ore e non sbagliano una nota neanche se li ammazzi. Forse avrei dovuto essere anche io così, suonerei ancora meglio».
La musica ha tolto tempo all’amore?
«Ma no! L’amore è la cosa più importante».
Ha amato molto.
«Il violino prende tempo e spazio, quindi bisogna trovare una donna paziente, gentile, rassegnata alla vita del violinista».
Ha sofferto?
«Moltissimo. Gli amori più grandi sono quelli sfortunati. Una realtà che bisogna accettare. Ho sofferto e fatto soffrire. A volte noi artisti siamo troppo egoisti, non pensiamo alla sensibilità degli altri. Ci sono amori che ho gettato via».
Ha avuto ammiratrici invadenti?
«Se invadono bisogna allontanarle. Magari lo sarò stato anch’io».
Oggi è innamorato?
«Lo sono sempre, non solo delle donne, ma di tutto ciò che mi circonda».
Ha rimpianti?
«Ho più rimorsi. Quali, non glielo dico».
Quanto è stato al massimo senza suonare?
«Mi ha distolto solo la malattia, non c’è ragione di abbandonare ciò che si ama. Tranne quando, dopo una lunga tournée in Sudamerica o in Giappone, mi prendevo 15 giorni di libertà per visitare il Paese. Mi piaceva recarmi anche nei quartieri più poveri, a volte correndo qualche rischio. A Buenos Aires andai a trovare Borges, lo conosce?».
Non di persona. Lei disse: «Il violino ha un’anima».
«Tecnicamente l’anima è uno stecchino di legno messo dentro alla cassa. Da come è posizionato dipende il suono dello strumento».
In senso metafisico.
«L’ispirazione viene dall’anima, che è come il vento: non si sa da dove spira ma c’è. Una realtà invisibile e astratta che direziona il corso della vita. Il violino in fondo è solo un pezzo di legno. Se viene suonato male è come un gatto che miagola».
Per otto anni studiò anche pianoforte.
«Uno strumento che abbraccia un repertorio più vasto. Il violino è bellissimo ma limitato, con il piano si può fare tutto, ha l’armonia. Però per me la voce classica di un Guarneri o di uno Stradivari è incomparabile, ha una potenzialità espressiva superiore. Paganini – che il suo Guarneri lo chiamava “il cannone” – diceva che lo lasciava cantare liberamente».
Quando viaggia lo imbarca come una valigia?
«Scherza? Una volta in America la compagnia aerea mi disse che avrei dovuto metterlo nella stiva. Ho preferito affittare un’auto e guidare per 400 chilometri, I violini sono fragili e sensibili, basta un niente per rovinare il suono, anche un piccolo cambiamento di temperatura o umidità. Il violinista è sempre in apprensione».
Figuriamoci il contrabbassista.
«Ho un amico contrabbassista, Franco Petracchi. Ogni volta che parte è un dramma. Il violoncellista deve pagare due biglietti. Arturo Benedetti Michelangeli, che voleva suonare sempre e solo il suo pianoforte, se lo faceva spedire».
Ne porta uno alla volta.
«Sì. Un grande violinista, cent’anni fa, suonò alla Carnegie Hall. Lasciò l’altro in camerino, gli fu rubato».
Quanto pesa un violino?
«Quaranta grammi».
Mi pare un po’ poco.
«Boh, forse 4 etti».
Maestro, ha mai steccato?
«Uh, capita in ogni concerto. Paganini diceva che il migliore violinista è quello che stona di meno. L’errore tecnico non ha tanta importanza. Alcuni grandi interpreti erano abbastanza fallibili ma creavano emozione».
Serve allenamento fisico?
«Stare in forma. Menuhin, uno dei più grandi violinisti, praticava yoga. Io faccio ginnastica dolce e stretching. La posizione del violinista è la più infelice e disgraziata, in piedi sembra un crocifisso».
Ha assicurato le mani?
«Mi pare di sì. Proprio la scorsa settimana, camminando ho messo un piede in una buca e sono caduto. Per non rompermi il naso ho portato le mani avanti e le ho sbattute sul selciato. Ieri suonavo in Sicilia e mi facevano male».
Prova ancora gioia a suonare il violino?
«La musica è arte e condivisione, quando riesci a comunicare con il pubblico allora sei appagato. Ma in Italia oggi c’è poca cultura musicale, la gente è distratta, dopo una sonata già sbadiglia, allora l’entusiasmo si perde».
Mai pensato di smettere?
«Vuole farmi smettere?»
Oh no.
«Quando mi accorgerò di non essere più in grado dirò basta».
È felice?
«Come si fa a misurarlo? Ci sono momenti di grande felicità e altri di amarezza, si equivalgono. Vedo in giro più gente infelice che felice, c’è troppo di tutto, non si ha più niente da desiderare».
Lo vedrà Sanremo?
«Ogni tanto lo guardo. Però la musica leggera non fa pensare, intrattiene soltanto. Per questo con la mia fondazione promuovo e diffondo la grande musica, spesso ignorata».