Avvenire, 24 gennaio 2025
Cosa ho imparato in trent’anni di digitale
Ci sono momenti della vita dedicati ai bilanci. Questo è uno di quelli. E se avrete la bontà di seguirmi fino alla fine, scoprirete perché. Sono nel digitale da trent’anni esatti e la prima cosa che ho imparato è di non dare nulla per scontato. Ho imparato anche a non accogliere le novità tecnologiche facendomi guidare solo dall’entusiasmo ma nemmeno a guardarle solo con timore. E, come recita una massima, ho imparato che «ognuno ha diritto alle proprie opinioni ma non ai propri fatti». Che si tratti di un giornalista o di un lettore, di uno specialista o un neofita, le opinioni sono legittime ma se si usano fatti (e dati) parziali o figli solo della nostra esperienza diretta come fossero un campione significativo, rischiamo di fare grandi errori. Ho imparato che nel mondo digitale ciò che valeva l’altro ieri, oggi può non valere più, tanto sono veloci i cambiamenti.
Quattro, in particolare, sono le cose che ho imparato in questi anni, vivendo la Rete ogni giorno per ore. La prima è quanto (anche e soprattutto nel digitale) sia importante dire grazie, chiedere per favore e rispettare gli altri. La seconda cosa che ho imparato è che, paradossalmente, dovremmo essere grati ai social. Sì, quei social che spesso ci appaiono volgari, intossicati, pieni di fake news e aggressività, sono stati e sono una sorta di cartina di tornasole delle nostre società. Ci hanno mostrato ciò che non volevamo vedere e ciò che le persone nascondevano nelle vite di tutti i giorni: la loro aggressività, le loro delusioni, il bisogno di avere un briciolo di popolarità, la rabbia e la solitudine. Ci hanno anche svelato quanto poco contino per molte persone certi nostri contenuti e certe nostre passioni, e di contro quanto affetto possiamo raccogliere anche su un social quando raccontiamo a cuore aperto i nostri momenti difficili. La terza cosa che ho imparato è a lottare contro i bias cognitivi, cioè ai modi (automatici) con i quali la nostra mente (nessuna esclusa) spesso crea una realtà soggettiva, basata su errori di valutazione, interpretazioni errate e mancanze di oggettività di giudizio. La quarta cosa che ho imparato è che nel digitale (forse ancora di più che nella vita reale) se avessimo più pazienza ci guadagneremmo tutti. Invece abbiamo tutti così fretta di reagire, rispondere e magari di mettere a tacere chi ci critica, che finiamo per non riuscire ad ascoltare davvero gli altri. E così spesso finiamo col non comprendere ciò che volevano dirci. Potrei andare avanti a lungo a raccontare ciò che ho imparato stando nel digitale trent’anni, ma lo spazio non me lo consente e probabilmente finirei con l’annoiarvi. Veniamo ora a ciò che accennavo all’inizio: perché questo è un momento di bilanci. Partiamo da due buone notizie. La prima è che la rubrica Vite digitali continuerà su Avvenire. La seconda è che a curarla saranno due colleghi molto bravi e che stimo profondamente: Ilaria Solaini e Alessandro Saccomandi. Questa infatti è l’ultima rubrica scritta da me. Non ho molto da aggiungere al riguardo. Chi avrà la bontà di cercarmi, magari mi troverà in altri lidi. Spero di andare avanti a condividere (anche in incontri dal vivo) ciò che ho imparato in questi anni. Per un po’ sarà attiva la mia mail l.rancilio@avvenire.it. Sono grato a questo giornale, col quale ho iniziato a collaborare nel 1988, ai direttori che l’hanno guidato e ai colleghi che mi hanno sopportato.
Ma sono grato soprattutto a quanti fra voi hanno apprezzato il mio lavoro. Non c’è niente di più importante per chi fa questo mestiere di scoprirsi utile al prossimo. Grazie davvero