il Fatto Quotidiano, 24 gennaio 2025
JPJ, detenuto 699: l’uomo-reliquia
Questa di Joseph Paul Jernigan è storia d’altro secolo, dicono le date. Ma ancora ci riguarda. Contiene il male e il bene, il dolore e il suo risarcimento, le regole della giustizia, la mappa sorprendente di una singola avventura umana e quella collettiva del vivere sociale, il senso universale della vita. E il significato irreversibile del suo contrario.
Trent’anni fa come oggi. Non sono cambiate e non potevano cambiare le radici della radiosa America intrecciate sempre con la violenza, il sangue, la vendetta, territori dentro i quali ho viaggiato allora – tra le Freeway che corrono da Houston a Dallas, passando per Waco e Corsicana – a illuminare la storia di un uomo, il detenuto JPJ, numero 699, giustiziato il 5 agosto del 1993 e poi sepolto, per la prima volta al mondo, nel buio della Rete, trasformato nella mappa digitale di tutti i corpi maschili, virato in blu, il colore del mare profondo, del tempo senza rimedio, della solitudine.
Mi attrasse il paradosso che di quel maschio bianco, usato in tutte le cattedre di Anatomia, disponibile dentro a ogni computer, potevamo conoscere ogni millimetro di perfezione o imperfezione del suo corpo eternizzato, ogni dettaglio del suo sistema linfatico, del suo cervello, del suo cuore, ma nulla della sua storia qui sulla Terra, non gli istanti della sua vita, durata appena 39 anni, la concatenazione di eventi che lo avevano condotto a uccidere e a essere ucciso. Uccidere per una malandata rapina finita peggio, in trenta minuti di crudeltà. Ucciso dopo dodici anni di segregazione nel Braccio della morte del carcere di Huntsville, Texas, il più grande mattatoio legale d’America che a quell’epoca aveva giustiziato un centinaio di detenuti, diventati più di cinquecento in questi anni. Tutti addormentati e uccisi con l’iniezione letale. Tutti prima stesi e poi legati a una speciale struttura d’acciaio che li imprigiona a braccia spalancate, proprio a formare la croce, simbolo di ogni afflizione, ma non della misericordia che pure dovrebbe contenere.
Era l’America di Clinton, allora. L’America democratica e liberal, anche se con pochi riverberi nella Lone Star del Texas, lo Stato più armato e più irritabile della Confederazione, eterna frontiera del sogno americano dove viaggiano insieme i cavalli e i cuor selvaggi raccontati da Cormac McCarthy. Seguendo la traiettoria di JPJ volevo raccontare quella serratura d’America che ancora oggi ci spalanca uno dei suoi lati peggiori, la pena di morte, ritualizzata come risarcimento sociale alla violenza, ottusamente raddoppiata nella violenza della punizione. Scandalo a cui non tutta l’America si rassegna, allora come oggi, nonostante la sua maggioranza abbia scelto per la seconda volta i muscoli di Donald Trump e le sue risonanti promesse a fronteggiare il labirinto delle proprie paure.
JPJ aveva confessato, era colpevole. Cinque volte aveva chiesto la grazia. Cinque volte gliela avevano rifiutata. “I diavoli non cambiano”, dice l’inchiostro con cui sono scritte le sentenze della pena di morte. Anche se è quasi sempre vero il contrario.
Alla fine non vedeva l’ora di perfezionare il suo “biglietto per il paradiso”: il dono anonimo alla società e alla scienza dell’unica cosa che aveva mai posseduto in vita, il corpo. Che si è lasciato dietro senza identità, senza storia, senza neanche il “last statement”, l’ultima dichiarazione. Il mio viaggio e questo libro valgono come risarcimento a quel vuoto e al suo significato.
Di seguito uno stralcio del primo capitolo: “A colazione con il vivo e con il morto”.
(…) È successo che la comunità umana degli Stati Uniti d’America, il Paese più ricco, più sviluppato e incidentalmente più violento del pianeta, ha ucciso un uomo colpevole di avere ucciso un altro uomo, secondo una consuetudine che ha qualche decina di migliaia di anni. E, con la forza di quel passato, lo ha destinato al futuro di un presente tecnologico perpetuo. Per servirsene. Separandone il corpo dalla vita – uno ricreato come matrice intatta, l’altra dissolta per volontà di legge – ha generato un fatto (scientifico, culturale, emotivo) del tutto nuovo, non ancora nominato, né nominabile.
E quando la madre di Paul, Annabelle McHenry Jernigan, in una polverosa mattina, davanti alla sua casa di Corsicana, Texas, mi ha detto: “Non voglio più parlare di mio figlio… Perché non c’è un solo posto al mondo dove io possa piangerlo, a meno che non vada a inginocchiarmi davanti a uno stramaledetto computer…”, ho cominciato a capire che quel corpo stava iniziando a tramandare la sua storia affinché noi potessimo restituirgli l’unico luogo che gli era stato negato, quello della sua precedente vita.
E che bisognava ritrovare tutte le parole necessarie, tutte le storie, compresa la violenza e l’orrore, il carcere e i lividi, le anfetamine, la birra, l’amore, i pomeriggi senza niente, i processi, il fucile calibro 4.10 e gli anni (o almeno un giorno) passati sotto le luci accese del braccio della morte di Ellis One, per riempire quel vuoto.
Così Paul non sarà più solo una mandibola o il calcolo della tensione di un tessuto, un ipertesto o un multiplo segno di ideografia dinamica. Ma un’intera reliquia.
Joseph Paul Jernigan è la reliquia.
E ci arriva da un futuro prossimo, la civiltà delle biomacchine che finirà per rendere l’uomo reale un rumore trascurabile, anche se Annabelle Jernigan dovesse mai decidersi a inginocchiarsi davanti a un giocattolo Ibm.
Victor M. Spitzer – lo scienziato che ha diretto il taglio del corpo di Jernigan – avrebbe sorriso, quella mattina allo Sheraton Hotel di Reston, Virginia, appoggiato alla tovaglia bianca, macchiata dal rosso dei lamponi, se gli avessi spiegato la storia della reliquia.
Invece il suo minutaggio lo fa scattare in piedi: “È tardi” dice soffiando. “Le lascio le foto nella cartella gialla… Prima di sera ho ancora un’ora e mezza libera, se vuole mi lasci un messaggio alla reception… Comunque se lei desidera incontrare il signor Jernigan non c’è problema. Le scrivo l’indirizzo”.
Prende un tovagliolo di carta, un pennarello dalla tasca interna: mi sta scrivendo l’indirizzo di un uomo morto tre anni fa.
Scrive: “World Wide Web http://www.nlm.nih.gov“. Ricontrolla, poi ride e allarga gli occhi: “Lei suoni, dovrebbe trovarlo in casa, non esce quasi mai”.