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 2025  gennaio 24 Venerdì calendario

Reportage da Ciudad Juarez

Addentrarsi in quella spaccatura di mezzo metro, tra i contorni taglienti della lastra di cemento, è come scendere agli inferi, entrare in una dimensione parallela, avventurarsi in una terra di mezzo. È l’inizio di un cammino ignoto, breve nelle geometrie ma con un forte senso di angoscia, che rende ancora più pieno il sapore dell’impresa, della libertà. La spaccatura è il portone di ingresso del tunnel, quel salvacondotto scavato nel buio della notte per eludere fiumi, muri e pattuglie di frontiera. Scene già viste, a migliaia di chilometri da qui, a Gaza o nel Libano meridionale, e ancora nelle trincee ucraine o nelle viscere delle terre nostrane. Questa volta però il tunnel è dall’altra parte del mondo, comincia a Ciudad Juarez, in Messico, e termina a El Paso, negli Stati Uniti. Era la galleria clandestina dei migranti, battuta da decine di persone per settimane, ora è un trofeo che la Guardia Nazionale messicana porta in dote a Donald Trump. A dimostrare che la lotta contro i clandestini inizia da questa parte della frontiera, ancor prima che dalla raffica di decreti esecutivi firmati dal 47° presidente americano. 
Per capire come si è arrivati al tunnel, occorre riavvolgere il nastro della storia di qualche ora, andando a ritroso rispetto al percorso che i migranti compiono per raggiungere la “terra promessa”, con margini di successo inesorabilmente in declino da lunedì, da quando Trump è tornato alla Casa Bianca. «Benvenuto in Messico», dice Carlos, consueto compagno di viaggio che da 15 anni vive a El Paso dopo infanzia e adolescenza trascorse a Guadalajara. Lui ce l’ha fatta. È un “regolare” con un’attività e due figli i cui nomi italiani sono tatuati in arabo su braccio e avambraccio: «È stata dura – dice – ma è anche vero che ultimamente la situazione di illegalità stava sfuggendo di mano». Riflessioni che trovano riscontro nell’ampiezza del fenomeno migratorio di Ciudad Juarez, l’ultimo terminale di fuga da ogni angolo del Messico, dell’America centrale e latina, prima del salto negli Usa. Gli “shelter” non si contano in questa città lambita dal Rio Grande che dieci anni fa aveva quasi 1,4 milioni di abitanti. Oggi? «E chi può dirlo», dice uno dei responsabili del rifugio El Buen Pastor. Alcuni ospiti dello “shelter” si sono presentati al confine alle 4 di lunedì mattina per il colloquio all’immigrazione preso con l’app. In piedi sul ponte con temperature sotto lo zero, prima di ricevere una e-mail dalla U.S. Customs and Border Protection: «Gli appuntamenti programmati tramite CBP One non sono più validi». Uno choc che mostra tutti i suoi segni sui volti dei migranti: guardano dalle inferriate delle finestre al piano terra, non vogliono parlare, non vogliono farsi vedere, temono che il prossimo passo sia un giro di vite anche da questa parte del confine, come del resto la stessa polizia messicana ha mostrato in un contagioso effetto transfrontaliero del Trump II. 
Chi invece la porta la apre sono i volontari della Casa del Migrante, non lontano dalla grande arteria Calle Nettuno. «Al momento abbiamo circa 120 ospiti. Prima ne avevamo di più, ma la scorsa settimana sono iniziati ad andare via per tentare di attraversare il confine prima dell’arrivo di Trump», racconta Julio Cesar Flores. È il responsabile della comunicazione del centro creato nel 1990 nell’ambito della rete di rifugi dedicata al vescovo e missionario italiano Giovanni Battista Scalabrini. Il centro di Juarez ha ospitato sino a mille persone lo scorso anno, in coincidenza dell’arrivo della “grande carovana” proveniente dal Northern Triangle. Al momento ci sono messicani, la maggior parte proviene però da Ecuador, Venezuela, Colombia e alcuni da Cuba e dall’America Centrale come Guatemala, Honduras, Salvador
«Molti tentano di attraversare il confine», spiega Flores mentre ci mostra la scultura realizzata dai migranti che adorna la piazzetta del centro. «La gran parte ha utilizzato l’app, ma ora non ci sono più appuntamenti disponibili». Racconta il profondo senso di vuoto che ha fagocitato nel silenzio gli ospiti del centro quando si sono visti annullare i colloqui, interrotto solo da grida di rabbia e pianti. Come quelli di Carmen, seduta su una delle panchine della piazzetta, gli occhi gonfi di chi ha versato lacrime dal peso specifico insostenibile, e ora pietrificate, appese, come le speranze di un ultimo miracolo. Il figlio di otto anni corre dietro al pallone nel campetto accanto, il calcio, questo calcio, aiuta quanto meno a proteggere frammenti di infanzia. «Tristezza, ansia, paura e incertezza per quello che può succedere, questo condividono i nostri amici da qualche giorno a questa parte – dice Flores -. Ci sono alcune persone che stanno pensando di tornare a casa, ma la maggior parte vuole aspettare». Il volontario si congeda con una riflessione di respiro politico, teme che ci saranno conflitti tra il presidente del Messico e Trump: «L’unica cosa che possiamo fare è avere fiducia in un accordo, col tempo, l’unica cosa che vogliamo è che ci sia un’immigrazione organizzata e rispettosa dei diritti umani». 
Il sole al tramonto illumina la X rossa simbolo del Messico, che si erge maestosa sulla Avenida Rafael Serna, l’avevamo già vista dall’altra parte del muro. Sotto di essa, in quella che era la zona della Fiera, le autorità messicane stanno realizzando un enorme centro di raccolta per migranti, lo scheletro di ferro della struttura fa da cornice post-industriale alla Croce della Chiesa posta alle spalle dello stadio Benito Suarez. Attorno gruppi di migranti attendono cibo e coperte. «Qui Papa Francesco ha celebrato la messa quando è venuto in visita nel febbraio 2016», ricorda Carlos. Negli stessi giorni Trump stava mettendo a segno pionieristiche vittorie nella prima avventurosa cavalcata alla conquista della Casa Bianca. Corsi e ricorsi storici che si intrecciano, così come quelli dei posti più disparati della terra dove i tunnel – dicevamo – sono appendice obbligata della vita. «Vi scorto io», dice un militare della Guardia nazionale messicana dopo una breve ed efficace trattativa per convincerlo a mostrarci il cunicolo posto sotto sequestro da qualche giorno. La discesa agli inferi è totalizzante, turbata solo da quel nastro nero e giallo che pone i sigilli alla fuga dei disperati. «Stile Hamas?», chiediamo. Il militare risponde «così e così» col gesto della mano. In effetti tradiscono imperfezioni e sono senza dubbio meno macchiati di sangue. 
Il tramonto indica la strada di ritorno verso il Cordova International Bridge, porta di accesso al Texas, dove ripercorriamo il viaggio della speranza interrotta. Si uniscono una coppia di amici messicani, Maria e Felipe, hanno appena fatto il pieno di patatine dall’inquietante colore arancio fluorescente che lasciano sulle mani tracce e odore da capogiro. A confronto le gloriose Fonzies anni Ottanta sono declassabili a sapone di Marsiglia. «Che ne pensi di Trump?», chiede Maria senza staccare un attimo le mani dalla busta, mentre il marito è alle prese con una tosse convulsa. «E di Biden?», incalza. Ci spiega il suo punto di vista: l’entrata in massa e indiscriminata degli anni scorsi è complice di quanto sta accadendo ora, e a pagarne sono i meritevoli. Il suo risentimento accompagna il passaggio alla dogana, peraltro piuttosto veloce, la fila si è diradata dopo i respingimenti del mattino. Le luci dei caselli puntano sul cartello “benvenuti in Texas”, dall’altra parte invece, per chi il Texas lo lascia alla volta del Messico, la fila è chilometrica. Il mondo al contrario. «Sono i parenti e gli amici che tentano l’ultima sortita, andare dall’altra parte a prendere i loro cari e portarli indietro ingegnandosi in ogni modo possibile», dice Carlos. Il tutto, prima della grande adunanza militare. Da domani le truppe Usa potrebbero sigillare gli ultimi pertugi di speranza.