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 2025  gennaio 24 Venerdì calendario

Biografia di Maccio Capatonda

La mente di Marcello Macchia, per tutti Maccio Capatonda, è un luogo in cui diverse cose vivono in armonia con il loro opposto e dove praticamente nulla è scontato. Comico tra i più amati (e imitati: c’è qualcuno attorno ai 40 anni che non abbia mai tentato di parlare anche solo una volta come padre Maronno?), ha fatto del surreale la sua cifra e della libera associazione di idee un metodo.
Spesso la definiscono un genio.
«Mi fa molto piacere ma lo vivo anche male. Adesso sono il primo ad avere grandi aspettative su me stesso. Inoltre più lo dicono, più diventa difficile riuscire a mantenere un livello tale per cui tornino a farlo di nuovo. Sono sempre molto severo rispetto a quello che ritengo geniale». 
Quando ha capito di avere questa vena comica?«Non da subito: da bambino non ero votato alla comicità. Quando ero piccolo volevo fare prima l’attore poi il regista, in particolare di film horror. Ne ho anche girato qualcuno, appena mi hanno regalato la famosa telecamera: avevo nove anni».
Da bambino ha iniziato a girare film?
«Poco più che bambino: dai 14 ai 16 anni ho girato e montato tre mediometraggi horror, un thriller e anche alcuni sketch comici, ma la comicità la vedevo come un hobby. Cercavo, per necessità, di coinvolgere nei miei film amici, parenti, chiunque conoscessi, per farli recitare. Volevo fare il regista, ma vedere che tutte le persone che “scritturavo” se ne fregavano delle riprese mi aveva fatto venire una sorta di rifiuto. Quel tipo di lavoro mi sembrava irraggiungibile, così all’università mi sono iscritto a Scienze della Comunicazione, con un indirizzo pubblicitario: tutti i miei colleghi erano stati mandati a fare stage in agenzie di comunicazione e marketing ma il mio prof disse che mi vedeva bene in una casa di produzione. Quindi, naturalmente, mi sono spostato di nuovo verso quello che sarebbe stato il mio mondo, allontanandomi da quello della pubblicità, per cui avevo studiato».
In quella casa di produzione, come passatempo, aveva ripreso a montare degli sketch per far ridere i suoi colleghi. Quindi le chiesero di farne uno per una trasmissione di Rete A.
«Sì, quei video che preparavo per gli amici nei tempi morti riscuotevano sempre un certo successo, così mi hanno proposto di farne qualcuno per questa tv. Mi ero inventato un personal trainer assurdo che parlava americano, Jim Massew. Lo vide la Gialappa’s e mi chiamarono per lavorare con loro».
E lì ha capito che la comicità era la strada?
«Non subito. Ma quando, dopo qualche tempo, ho realizzato che la comicità poteva diventare un lavoro, è stato un momento catartico. Essere scelto dalla Gialappa’s mi ha responsabilizzato molto: forse senza la pressione di dover fare un video a settimana, non sarei andato in cerca di molte idee. La chiave per me è stata l’esigenza di dover soddisfare delle persone che erano dei maestri per me. Se avessi iniziato da solo, come youtuber o influencer credo mi sarei posto in modo diverso. Avere un interlocutore che mi metteva soggezione mi ha spinto a fare di tutto per non deludere».
Che tipo di bambino era?
«Molto intraprendente e sempre alla ricerca dell’evasione: mi sembrava che la realtà fosse noiosa o dolorosa. Nella realtà ci si poteva fare male. E quindi cercavo sempre di scrivere storie: lì nasce la mia passione per il surreale e la voglia di trasformare la realtà... o di deformarla, destrutturarla, quasi come atto di ribellione a una esistenza che non puoi sempre controllare, anzi, che è fuori controllo. Se scrivi tu, però, sei tu che decidi cosa succede».
Molta della sua comicità ironizza attorno a certi cliché del cinema della televisione.
«È il mio pane, il mondo in cui sono cresciuto e che voglio destrutturare. Sono cresciuto negli anni ‘80, quelli del boom della tv berlusconiana e del cinema americano: queste due realtà mi hanno educato a una estetica e a un linguaggio, così come oggi i nativi digitali sono educati ad essere lobotomizzati... vabbé noi li vediamo così, poi magari non lo sono tutti».
Anche se si definisce severo, c’è qualcuno che lei reputa geniale tra i comici?
«Sicuramente Guzzanti: l’ho sempre ritenuto un genio. Poi Ricky Gervais e mi piace molto anche Lundini: lo trovo uno dei colleghi più vicini alla mia comicità. Carlo Verdone poi per me è un idolo assoluto».
Ha recitato al suo fianco in «Vita da Carlo 3» (su Paramount+). Lì si mostra insofferente verso il suo alter ego, Maccio Capatonda.
«In realtà io non considero Maccio un alter ego. Piuttosto è la sua fama a volte a crearmi dei disagi».
Le è mai successo di non far ridere qualcuno?
«A volte è successo. Di solito tutti ti fermano per farti dei complimenti, ricordo ad esempio una ragazza che mi ha detto: oh, a me non fai ridere. O un uomo che mi aveva detto: non capisco perché ridano. Menomale, non si può piacere a tutti».
In famiglia la capiscono?
«All’inizio non tanto, sono rimasti spiazzati dalla mia carriera. Ogni tanto vedendo i miei horror fatti in casa ridevano: se non riesci a far paura è un attimo che fai ridere. Oggi sono dei miei fan sia mia madre che mio padre: continuano a preferire Woody Allen o Nanni Moretti, ma li capisco». 
Comunque, una famiglia apprezza la comicità, si direbbe.
«I miei genitori sono entrambi dei comici mancati: fanno continuamente a gara a chi dice le cavolate più grosse. Mia madre fa ridere proprio come personaggio, per come ti pone le questioni. Mio padre è più uno da freddure».
La vediamo sempre in video: mai pensato a un suo spettacolo live?
«Sono nato facendo video e ho sempre usato la telecamera: è il mio modo di controllare e essere protetto. Ora però sento la voglia di andare live: alla veneranda età di 46 anni sto iniziando a mettere in piedi questo progetto».  
Al suo nome si associa quello di Herbert Ballerina.
«Ha iniziato a lavorare con me, facendo il cameraman. Poi è passato alla produzione, quindi il costumista. Alla fine, come succede spesso con me, anche se hai altri ruoli ti ritrovi a fare l’attore perché non c’è budget per altri. Quella con lui si è rivelata una coppia particolarmente fertile sia per la resa in scena ma anche perché ci siamo messi a scrivere assieme. Poi io mi sono trasferito a Roma e lui è rimasto a Milano quindi stiamo lavorando assieme un po’ meno, ma è anche giusto che si affermi da solo. L’idea per lo spettacolo era anche di farlo assieme, comunque. Ci stiamo ragionando». 
Come mai è andato a vivere a Roma?
«Perché dopo 19 anni avevo bisogno di un cambiamento. Ho scelto Roma solo perché era molto diversa da Milano; ci vivo da cinque anni  e mi ritrovo molto bene, pur con i vari disagi».
Cosa le piace della Capitale?
«Roma è più realistica rispetto a Milano. A Milano vivi in una bolla di efficenza in cui non trovi determinati spunti che hai invece grazie al contatto con la realtà che ti offre Roma, per via dei suoi vari casini... possono essere stimolanti, se non capitano troppo a te».
Il desiderio di bambino di girare un horror potrebbe mai tornare? «Assolutamente sì: sono abbastanza convinto che il mio prossimo film sarà un horror. Voglio esplorare questo mondo, vorrei provare a sperimentare questa cosa».
Cosa pensa di Dario Argento?
 «È stato uno dei miei primi amori. Mi piaceva moltissimo anche se mia madre non voleva che a cinque anni vedessi Profondo rosso. Io lo volevo guardare a tutti i costi e finalmente, quando ne avevo 8, lo diedero in tv. Ho visto precocemente tanti film dell’orrore».
Dormendo poi serenamente?
 «Si, si. Anzi, mi piacevano tantissimo proprio perché mi facevano capire quanto puoi arrivare a spaventare con il mezzo del cinema ma anche, allo stesso tempo, quanto tutto questo in realtà sia finto. È come andare sulle giostre: crei una sensazione di paura, ma molto safe. È una paura controllata, che non ti può fare male. Anche le montagne russe devono farti provare qualcosa, se no non c’è più gusto ad andarci. Ma è tutto sicuro, alla fine».
Cosa la spaventa allora?
 «Il dolore fisico mi fa molta paura. O la morte dei miei cari. La mia non tanto, sono abbastanza curioso di capire cosa succede poi. In generale la perdita di controllo mi spaventa sicuramente, anche se mi rendo conto che dagli imprevisti si impara. Eppure a volte faccio fatica anche ad addormentarmi, almeno certe sere, e mi viene quella sorta di paura nel pensare: e adesso? Cosa succederà? Ma nel tempo ho capito che forse il bello è proprio l’accettazione di non avere il controllo».
Di certo il controllo ce l’ha del suo corpo: balla benissimo.
«È una passione che ho avuto fin da piccolo, nata grazie a Michael Jackson... il suo modo di ballare, unico, potrei definirlo surreale, nel senso che destrutturava la realtà. Usava il corpo in una maniera che andava contro le leggi della fisica e questa cosa a me piaceva moltissimo. Così, da solo, avevo iniziato a provare le sue coreografie: guardavo i video, andavo avanti e indietro. In prima superiore ho fatto un saggio in cui mi sono esibito, da solo, sulle note di “Jam”. Andò bene. Solo che poi mi sono vergognato troppo e me ne sono andato».