Corriere della Sera, 24 gennaio 2025
Biografia di Leonardo Maltese
Leonardo Maltese ha 27 anni e un percorso cinematografico già molto significativo. Si è fatto notare con la sua interpretazione di Ettore Tagliaferri ne Il signore delle formiche di Gianni Amelio (2022). È stato l’adolescente Edgardo in Rapito di Marco Bellocchio (2023) e in questi giorni è Ragusin in L’abbaglio di Roberto Andò. Tanti lo conoscono ormai però come il protagonista di Leopardi. Il poeta dell’infinito la miniserie andata in onda a inizio anno sulla Rai. Nato a Ravenna da papà siciliano, mamma inglese.
Qual è la sua idea di origine?
«Spesso mi sono sentito apolide. I miei genitori sono divorziati e mi è mancato non avere la casa di famiglia, i nonni che vivono nella stessa città, la villetta al mare dove si va tutti insieme l’estate».
E invece?
«Sono cresciuto con mia madre a Ravenna. Parte della mia famiglia è in Inghilterra, parte in Sicilia. Certo, tutto questo è anche una ricchezza e il bilinguismo mi ha aiutato».
In che modo?
«Sento di essere più predisposto ad apprendere i suoni. Ho parlato tardi, a tre anni. Mia madre si rivolgeva a me tutto il giorno in inglese, mio papà in italiano. Però oggi mi sembra di cogliere facilmente le cadenze».
Per esempio?
«In Abbaglio mi sono cimentato nel veneto, un dialetto che ho dovuto apprendere. Anche Sergio Rubini nel corso delle riprese di Leopardi mi ha detto di trovarsi bene a lavorare con me, perché quando cercavamo l’intonazione io scendevo nel dettaglio sonoro della battuta».
Lei ha una passione per la musica. Tra l’altro nella canzone di un suo album, Il cuore un po’ più grande, scrive: «Ho tipo lo Zibaldone nelle note dell’IPhone».
«Il primo amore è stata la musica. Poi ho iniziato a scrivere poesie. Solo dopo è arrivata la recitazione. Tutto però parte dal suono».
Anche per «Leopardi» il suono è centrale. Chi era questo poeta per lei?
«Non avevo un’idea della persona. Non abbiamo costruito a tavolino il suo personaggio, il modo di vestire, di parlare, di muoversi. Abbiamo provato a immaginare il suo pensiero, la sua anima. Io mi sono concentrato sui suoi scritti. Sergio Rubini però aveva un’idea chiara e definita. L’universo è stato generoso, perché ci siamo incontrati e io ho scoperto di muovermi a mio agio dentro il personaggio».
Ed Ettore del «Signore delle formiche»?
«Con Ettore ero molto nudo. Gianni Amelio mi aveva scelto per quello che ero. Prima di allora non avevo fatto neanche un cortometraggio. Solo teatro. Non ero un attore, o meglio, solo io sapevo di esserlo. Anche in quel caso una grande congiuntura astrale. La scena della deposizione in tribunale non doveva essere tutta in primo piano. Quel giorno è venuta così. L’ho girata una volta, andava bene e Gianni mi ha mandato a casa».
Ed Edgardo di «Rapito», bambino e poi uomo ebreo costretto a convertirsi al cattolicesimo?
«È un personaggio combattuto internamente. Edgardo è una persona frastornata, non sa più chi è: quel conflitto è molto difficile da rappresentare. È più semplice incarnare un uomo che sappia cosa fare, un essere molto arrabbiato o addolorato. Edgardo era un groviglio, pieno di nodi».
Tutte figure che subiscono soprusi?
«Sempre con dei genitori che vogliono direzionarli in un modo o nell’altro. Mi fanno sorridere i personaggi di Fausto Russo Alesi…»
Perché?
«Lui è Momolo Mortara in Rapito, il padre di Edgardo, ed è Pietro Giordani in Leopardi. Nel film di Bellocchio era il padre che rinnegavo, in quello di Rubini il padre che vorrei».
E Monaldo Leopardi?
«Alessio Boni ha dato vita a un grande Monaldo. Una scena che mi emoziona moltissimo è quella in cui lui osserva Giacomo lasciare Recanati, lo vede uscire dalla casa e si scambiano uno sguardo. Monaldo sa che Giacomo fuori di lì andrà incontro alla morte e anche il figlio ne è consapevole. Ma va anche verso la vita. Sembra incredibile. A volte dobbiamo fare le scelte sbagliate».
Non la spaventa rappresentare sempre vite tanto complesse?
«Prima o poi vorrei impersonare personaggi più leggeri. Avvicinarmi alla contemporaneità. Ma devo dire che Leopardi è modernissimo, un poeta giovane. L’interesse dei ragazzi ha confermato che non ha nulla del “reperto”. Il suo struggersi, la sua vita impossibile, dove ogni cosa è lontana, ricorda il tempo in cui sei adolescente. È un sentimento eterno».
Ragusin dell’«Abbaglio»?
«È un personaggio naïf nelle sue passioni, nei suoi sogni. Un garibaldino che viene dal nord, dal Veneto, va in Sicilia per prendere parte all’impresa dei Mille. Mi affascinano i suoi occhi, il suo modo di guardare, lui veneto, la Sicilia dell’Ottocento. Ragusin crede nel cambiamento della Storia. È uno che spera di poter intervenire sulla realtà. Roberto Andò riesce a creare il senso dell’enigma in tutti i suoi film, qui davvero si viene “abbagliati”».
Qual è il suo rapporto con la volontà?
«Io sono sempre stato molto da solo. Non mi sono mai fatto trascinare da movimenti più larghi di me. Ho voluto guidare da me la mia canoa, come dicono gli scout. In questo mondo dove tutto è normato, dove si cerca di ridurre al minimo l’individuo, dove sembra che nessuno voglia sentire la tua opinione, io voglio dirlo che abbiamo diritto a stare qui e sono contento se posso sentire l’opinione di qualcun altro. Ma resto molto spirituale. Vedo dei significati nell’universo».
In che senso?
«Il Signore delle formiche iniziava con una scena in cui io e Luigi Lo Cascio citavamo Il passero solitario. E quest’anno sono Leopardi».
Quindi non una coincidenza?
«No, in minima parte. Ma questa è anche la mia visione New Age. Mi faccio condizionare perché trovo una certa magia nel mondo».
Come si relaziona con il successo?
«Sono contentissimo. L’altro giorno sono andato a una notte bianca della poesia. Vedere che la gente era felice della mia presenza lì mi ha riempito il cuore. Io voglio essere uno che rende belli i momenti della gente».
Rispetto al riscontro di «Leopardi», come si è posto di fronte a elogi e critiche?
«Sinceramente ero troppo contento. Io a questo progetto ho donato un anno intero della mia vita. E su un arco di 27 anni non è poco. Ho lavorato duro e se non lo avessero visto tante persone mi sarebbe dispiaciuto. Sono contento per me e anche per la Rai. E poi mi feriscono di più le critiche delle persone che conosco. D’altronde, resto molto semplice, faccio una vita da fuorisede a Roma, vivo in una stanza al Pigneto».
Ci sono registi con cui le piacerebbe lavorare?
«In Italia sono un fan delle sorelle Rohrwacher. Se mi volessero adottare, io ci sono. Amo tutto di loro. Credo che Lazzaro felice sia uno dei film della mia vita».
Scapperà all’estero per via del suo bilinguismo?
«Mi piacerebbe tanto. Quindi o un film con le Rohrwacher qui o Spiderman. Sono pronto per un uomo ragno drammaticissimo, noir. Non so se la Marvel mi chiamerà, ma io ci spero. Mi allenerei, farei capriole, salti mortali».
Lei è un enfant prodige ribelle o disciplinato?
«Durante Leopardi mi sono annullato. I film producono in me quest’effetto, perché non voglio avere neppure un rimorso. Capita sul set che mi senta male o mi sia successo qualcosa, però poi penso: “Questa la riprendono e resta per sempre e io potrei spingere ancora un po’ di più”. Il film resta. Io devo essere certo di aver dato tutto».