L’Adige, 24 gennaio 2025
Vermiglio ha perso ma rimane un gioiello di cinematografia
Quanto è difficile raccontare le storie e l’identità della gente di montagna sul grande schermo. Se a farlo è qualcuno di città, quasi sempre è un racconto falsato di chi nella montagna cerca solo uno specchio per se stesso, una mindfulness low cost, una fuga dai problemi quotidiani. Ma anche quando chi lo fa ha invece le migliori intenzioni, c’è sempre il rischio di non riuscire a superare l’apparenza e di ridurre il tutto a una farsa oppure a un dramma inverosimile, come nelle canzoni dei cori trentini, piene di uomini che vanno in guerra, fidanzamenti rotti, papà ammalati e drammi su drammi, “perché noi sen trentini e sen vegnudi al mondo per patir”, direbbe Loredana Cont. Anche per questo è invece davvero lodevole il lavoro fatto da Maura Delpero in “Vermiglio”, premiato con il Leone d’argento a Venezia. Attingendo a molti grandi Maestri (Olmi, Rouquier, Reitz, Haneke e solo in misura marginale Bertolucci), la regista bolzanina realizza un piccolo gioiello. Fra l’altro, il film riesce in qualcosa di non facile e su cui invece i film di Olmi rischiavano di scivolare: sfuggire al triste feticismo nostalgico del passato, del rapporto con la natura, del mondo di una volta, del “si stava meglio quando si stava peggio”. La regista vuole semmai raccontare un microcosmo, nel suo dolore silenzioso e nella sua bellezza fragile, quando anche sulla gente di Vermiglio, apparentemente ai margini degli eventi del mondo, incombe (di riflesso) il dramma della guerra. In questo film corale la regista ci offre un affresco teso a ricostruire a tutto tondo il carattere e la dignità di queste persone di montagna vissute un secolo fa, andando oltre la diversità di costumi, andando oltre la barriera linguistica, andando oltre anche la difficoltà di allora – e in generale della gente di montagna – nell’esprimere se stessi e i propri sentimenti. C’è la tragedia collettiva della gente comune, che subisce la Storia con la s maiuscola senza vederla da vicino, ma ci sono anche le solitudini e i drammi individuali, influenzate certo dal contesto, ma che non sono poi così dissimili a quelle del presente, dove ognuno – nella propria totale incomunicabilità – porta avanti una propria silenziosa battaglia di resistenza. In questo senso, allora, la montagna diventa una metafora perfetta. Il tutto viene raccontato con un rigore impressionante sia sul piano narrativo che sul piano registico ed estetico, con una fotografia dichiaratamente ispirata alle opere di Segantini. La regista mostra una particolare sensibilità per i personaggi femminili. L’unica critica che si potrebbe muovere è forse quella di aver voluto fornire una sorta di catalogo completo delle solitudini femminili, strizzando l’occhio al presente; se ciò è pur vero, il rigore nella narrazione, l’attenzione costante nell’evitare lo scivolamento nell’esibizione spettacolare, nonché l’autenticità complessiva dei personaggi consentono tuttavia di superare l’obiezione. Sorprende davvero, poi, l’intensità dell’interpretazione degli attori locali protagonisti. Un meritato Leone d’argento, dunque. In conclusione, però, ci permettiamo di formulare l’auspicio che in futuro la nostra terra riesca ad esprimere se stessa anche con riferimento al presente, nel raccontare i nostri sogni, le nostre paure, le nostre identità plurali e le nostre solitudini, che non sono più (solo) quelle; ma questa è un’altra storia.