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 2025  gennaio 23 Giovedì calendario

Molla tutto e fa il giro del mondo a piedi

Prendere, partire e – fanculo – mollare tutto: preoccupazioni, ansie, noia, lavoro, amici, familiari. Quante volte l’abbiamo sognato, immaginato, fantasticato senza poi trovare il coraggio di andare. Lui invece l’ha fatto e nel modo più estremo: mettendosi alla prova con il giro del mondo a piedi. Nicolò Guarrera, 31 anni, ha salutato tutti il 9 agosto 2020 – sì, in pieno Covid – e da San Tomio di Molo, provincia di Vicenza, si è incamminato verso la Francia, per poi attraversare la Spagna, passare dalle Canarie e dai Caraibi, percorrere tutto il Sudamerica, l’Australia, l’India, l’Iran, l’Armenia e la Turchia («Dove ho macinato 1000 km al mese perché mi scadeva il visto»).
Ora è appena entrato in Bulgaria e, dopo essere sceso fino ad Atene («È uno dei luoghi che più mi interessavano e allungo volentieri») risalirà per la costa balcanica per rientrare in Italia, più o meno, a settembre 2025. Un viaggio lungo cinque anni che, finora, l’ha visto percorrere 32.000 km, consumare 22 paia di scarpe e conquistare l’attenzione di 310 mila follower che lo seguono, quotidianamente, sui social del suo profilo “Pieroad” («Cosa significa? Semplice, viaggiare a piedi: è una parola composta da Piè, cioè piede in dialetto, e Road, cioè strada in inglese»).
Nicolò, che ora si definisce «un viandante», era un normalissimo ragazzo – non immaginatevi chissà quali storie strane alle spalle – che aveva frequentato l’università a Verona e Parma (intervallata da un Erasmus in Spagna) e che lavorava a Milano in un’azienda del settore Fmcg (prodotti di largo consumo) occupandosi del marketing della categoria cioccolato («Ottimo impiego, colleghi brillanti e capaci, ero molto soddisfatto»). Ad un certo punto, però, si è dimesso e ha deciso di fare il grande passo – il più importante e più difficile rispetto ai successivi 39 milioni che finora l’hanno portato fino in Bulgaria – e coronare il suo sogno: girare il mondo a piedi.
«Camminare è il modo più naturale per spostarsi da un luogo all’altro, si avanza ascoltando il ritmo del corpo. L’idea è nata nella camera di un appartamento per studenti a Parma. Mi sono chiesto: “Se la tua vita fosse un’opera d’arte, andresti a vederla?”. Ho risposto no. Il contrasto è stato forte: da una parte il pantofolaio, dall’altra il viaggiatore scattante, quasi nervoso, che appena ha collegato i punti ha deciso che sarebbe stato possibile. E che bisognava provarci». Dopo tre anni di rodaggio («2000 km in tutto per mettermi alla prova, ho fatto anche il Cammino di Santiago») e la comunicazione del progetto agli amici («No, non ero fidanzato») e ai genitori («Famiglia fantastica dalla mentalità aperta, si sono presi una settimana per pensare e poi mi hanno detto: “Siamo felici se tu sei felice”. Mi sono stati di supporto, li sento al telefono almeno una volta alla settimana e sono venuti pure a trovarmi»), l’incontro decisivo con il compagno di viaggio Ezio. Già, perché Nicolò non è solo in questa avventura. «Ho pensato che certi tragitti non sarei riuscito a completarli con uno zaino in spalla, così su Google ho scoperto l’esistenza di un passeggino da trekking per bambini gemelli e l’ho chiamato Ezio perché mi piaceva il nome ed era corto. È stata la svolta, ho capito che con lui sarei partito davvero».
Pronti, via. Nicolò ed Ezio hanno lasciato casa con i risparmi di una vita (poche migliaia di euro, cui poi si sono aggiunti gli sponsor e le donazioni: «Le spese per vivere sono pochissime») direzione Genova. «Tre settimane per arrivarci. La prima sorpresa? I liguri non sono per niente tirchi e inospitali come si dice: A Voltri, vedendo su Instagram che dormivo in tenda, un certo Riccardo è venuto a prendermi e mi ha ospitato».
La giornata tipo di Nicolò in questi anni è sempre stata più o meno uguale.
«Sveglia molto presto, mezz’ora prima dell’alba, colazione in tenda e poi preparo i bagagli. Dopo 40 minuti solitamente sono già in viaggio e finché c’è buio uso una torcia frontale sulla testa e indosso un giubbotto catarifrangente. Dopo 3 ore di cammino – circa 20 km – faccio una pausa con merenda e stretching. Poi altre due ore e mezza per strada, pranzo e le ultime due ore di viaggio che mi portano più o meno a totalizzare 40 km. A quel punto cerco un posto per campeggiare: deve essere sicuro, lontano dalle strade e possibilmente bello. Monto la tenda, ceno, mi dedico un po’ ai social e alla scrittura e poi leggo dentro il sacco a pelo. Alle 21 dormo. Come faccio per la batteria del cellulare? Ne ho 2 ed hanno 20.000 e 5.000 mAh (milliampere-ora ndr), il che significa fino a 5/6 giorni di autonomia a seconda dell’uso. Poi trasformo l’energia solare in energia elettrica usando una batteria a pannelli solari. Con il freddo però le batterie si scaricano velocemente, quindi durante il giorno tengo il telefono attaccato al corpo in tasca e di notte lo porto nel sacco a pelo».
Lasciata l’Italia, Nicolò è passato dalla Francia, ha percorso il Cammino di Santiago («Era periodo di Covid e molti ostelli erano chiusi») ed è sceso per tutta la Spagna («L’incontro più assurdo è stato con un tizio polacco che sosteneva di parlare con Dio. Siamo andati a bere una birra e al momento di pagare ha detto che non portava mai con sé soldi, come se fosse la cosa più logica e normale») fino a Palos de la Frontera. «È il porto da cui è partito Cristoforo Colombo. Mi sono fermato un mese lì facendo il “barcastop”, finché ho in
contrato Bill, australiano di 70 anni, disposto a farmi imbarcare sul suo catamarano malgrado non avessi nessuna esperienza di navigazione. E siamo salpati io, lui e un polacco».
Un viaggio lungo 33 giorni. «Era previsto che arrivassimo ai Caraibi in 25 giorni, ma abbiamo trovato una settimana di bonaccia. Stavamo finendo il cibo, è stata davvero dura. Ero angosciato, è un’esperienza che non rifarò mai. Però ci sono stati anche aspetti meravigliosi: mai più rivisto un cielo così stellato, nemmeno nel deserto, poi abbiamo incrociato delfini, squali e anche una balena che si è messa sotto lo scafo».
Approdato a Santa Lucia, nei Caraibi, Nicolò («Con Ezio che era ripiegato in coperta») è stato ancora un mese con Bill, ma poi si è separato: «Non andavamo particolarmente d’accordo nemmeno durante la traversata, troppo nervoso. L’ho mollato e sono andato in aereo a Panama, dove ho attraversato lo stretto a piedi congiungendo idealmente i due oceani Atlantico e Pacifico». Poi un altro aereo fino a Quito e via, camminando per il Sudamerica. «In Ecuador ho partecipato a una cerimonia sciamanica all’interno di un vulcano. Era un villaggio piccolo con un centinaio di persone. Gabo, sciamano studioso di botanica, ci ha fatto bere lo “yagè” (il nome completo è “ayahuasca”, che significa letteralmente “liana degli spiriti” o “liana dei morti”, ed è un decotto psichedelico, ndr), sostanza estratta dalle liane di alcune piante dell’Amazzonia. È un catalizzatore che aiuta a esternare tutto quello che hai dentro di te, il tuo passato più nascosto. È stata una nottata molto intensa, una specie di seduta dallo psicanalista».
Nicolò è passato dal Perù («Indimenticabile l’incontro con un gruppo di artisti di strada sulle montagne a 4300 metri di altitudine, hanno fatto un pezzo di tragitto insieme a me») e dal Cile. «Il profumo che mi è rimasto impresso del Cile è quello dell’acqua dei ghiacciai, il rumore è il silenzio del deserto di Atacama, il luogo più arido della terra, una sensazione di avere qualcosa che preme sulle orecchie e le fa pulsare. Spettacolare poi il “Salar de Uyuni“, immensa distesa di sale grande quanto metà della Sicilia. Contiene 10 miliardi di tonnellate di sale, ma né le cifre né le foto rendono la stranezza di questo posto unico al mondo. Ovunque c’è un bianco abbagliante che punge gli occhi. Il senso di profondità scompare e ci si può orientare per sommi capi solo usando le cime azzurre che si vedono al fondo, a decine e decine di km di distanza. Tira gran vento ed è su un altopiano andino a 4000 metri: di giorno il sale fa effetto piastra facendo rimbalzare i raggi solari e scaldando l’atmosfera, mente di notte, data l’assenza di elementi termoregolatori, si gela». In Cile, però, Nicolò ha conosciuto anche una ragazza particolare. «Belen, biologa di 31 anni. Mi ha ospitato tramite Couchsurfing e poi mi ha seguito in cammino per due settimane. Ci siamo fidanzati e la storia è durata sei mesi, ogni tanto mi raggiungeva. Altri flirt? Diciamo che durante il tragitto sono stato assieme ad alcune ragazze...».
Dopo il Cile altre tappe, altri giorni, altri lunghe camminate ancora più giù, sempre più giù fino a Ushuaia, nella Terra del fuoco («È considerata la fine del mondo»), percorrendo fino a quel momento 12 mila km in 2 anni. Poi un nuovo aereo e il trasferimento a Sydney, in Australia. «Era il 22 marzo 2023 ed è stato un ritorno, perché avevo lavorato lì nel 2016. Ma anche uno dei momenti più difficoltosi, anche se non ho mai penato di mollare». Sì, perché Nicolò ed Ezio hanno dovuto attraversare il deserto da Sydney a Darwin, 5.500 km in quasi sei mesi. «Quando ero nel deserto del Cile ogni 6-7 giorni arrivavo in una grande città, nella quale potevo riposare e rifornirmi di acqua e cibo. Stavolta, invece, ogni 400 chilometri arrivavo ad una piccola stazione di servizio, una sorta di mini autogrill a conduzione familiare, dove non c’era molto da comprare. È stato molto difficile perché non staccavo mai, mi sembrava di non arrivare da nessuna parte, erano distanze apocalittiche. Ho dovuto camminare molto più del solito: in America Latina percorrevo una quarantina di chilometri al giorno, in Australia ne coprivo 45-47. Sembra una differenza piccola, ma si tratta di un’ora e mezza di fatica in più al giorno. Ad aiutarmi molto è stata la lettura del libro In terre lontane di Walter Bonatti in cui lui raccontava una suo viaggio proprio nel “Red centre”, il Centro Rosso dove ero io».
Altro volo in aereo e arrivo a Calcutta, in India. «Esperienza più difficile di quella del deserto. Odore nauseabondo di piscio ovunque, non esiste la carta igienica, i clacson suonano ininterrottamente e c’è estrema povertà».
Nicolò ed Ezio hanno percorso 3500 km in 5 mesi. «Difficile entrare in contatto con le donne, che sono trattate in modo diverso dagli uomini e fanno lavori umili e in alcuni casi degradanti: la società lì è molto più patriarcale di quella dell’Islam. L’incontro più assurdo? Quello con uno Sannyasa, un monaco asceta che ha rinunciato a beni materiali, vincoli familiari e affettivi per dedicarsi al perfezionamento spirituale. Era scalzo e vestito di arancione, è sceso dalla bicicletta e ha detto: “chalo”, andiamo. Abbiamo camminato assieme durante il pomeriggio, tra silenzi e qualche parola di hindi e inglese. Quando gli ho chiesto il nome e l’età ha risposto: “Ho rinunciato all’identità, non ho nome né anni”. Mi ha spiegato che il suo pellegrinaggio andrà avanti finché il corpo lo sosterrà».
Persone, esperienze, paesaggi («Dove mi trasferirei? Nella Patagonia cilena»), cibi strani («Nell’Ecuador ho assaggiato cioccolato con formaggio, alle Galapagos pesce con pop corn, a Panama mango con sale e aceto»). Ma anche qualche intoppo di salute («A parte qualche febbriciattola, in India sono stato morso da un cane e una volta una borsite al ginocchio è degenerata per una reazione allergica») e organizzativo.
Come quello in Pakistan. «Mi hanno negato il visto e sono stato costretto a prendere l’ultimo aereo del mio viaggio: destinazione Oman. Per tre mesi poi ho camminato nella penisola Araba e a maggio sono arrivato in Iran, proprio dopo lo schianto dell’elicottero sul quale viaggiava il presidente Raisi. La situazione però era tranquilla. Gli iraniani invece sono un po’ strani: le leggi sono molto ferree, ma loro si comportano come vogliono. Qualche esempio? Non si possono ospitare persone, ma lo fanno tutti; sono vietati i social ma tutti li usano». Da lì la salita sulle montagne dell’Armenia («Bellissime, rotte turistiche spettacolari e ottimi alcolici come vino, brandy e grappa») e infine la Turchia («C’è profumo di pane fragrante»).
Ora che Nicolò è rientrato in Europa, il ritorno a casa è sempre più vicino. «Quando a settembre arriverò in Italia chiunque potrà raggiungermi per accompagnarmi nelle ultime tappe di cammino, organizziamo una cosa alla Forrest Gump. Cosa farò poi? Sicuramente scriverò un libro, che è il mio sogno fin da bambino. Lavorare in ufficio? No grazie, mai più. Alla peggio posso sempre ripartire».