Linkiesta, 23 gennaio 2025
Il dramma di quelli che lamentano il follow d’imperio a Trump senza capire niente
Ventunesimo secolo, tu mi odi. Io non lo so cosa ti ho fatto di male, ma è evidente che vuoi impedirmi di esprimermi sul libro di Francesco Piccolo, che tra l’altro sembra scritto in quell’altro secolo, quello per il quale mi struggo di nostalgia.
È evidente che io devo starti proprio molto antipatica e devi esserti concentrato a pensare quale fosse la giusta retribuzione (che è una citazione d’un Boccaccio citato da Piccolo) per rifarti su di me, e la giusta retribuzione è: no, Sorcioni, tu non puoi scrivere di “Son qui: m’ammazzi”, perché devi scrivere il quattrocentesimo articolo su quanto è scema l’umanità.
C’era ancora Obama, il primo presidente dell’epoca social – quindi parliamo di tre elezioni americane fa. C’era ancora Obama e c’era sua moglie e c’era Biden che era suo vice, e i social – Facebook era di Zuckerberg come da sempre, Twitter credo fosse di Dorsey – si posero il problema d’essere diventati una cosa che seria non sarebbe mai stata ma che veniva trattata come tale.
(Ci sono molti passaggi che andrebbero studiati, nell’intervista di Rogan a Zuckerberg, e in uno di essi si fa notare che i governi non sanno come regolamentare quelle piattaforme per la banale ragione che una cosa come quelle piattaforme non è mai esistita: non ci sono precedenti).
Quindi si decise che, poiché le cose che un presidente nell’esercizio delle sue funzioni diceva sui social facevano parte della comunicazione del suo mandato presidenziale, ciò che chi stava alla Casa Bianca scriveva sui social sarebbe da lì in poi stato archiviato nella biblioteca del congresso. E che l’account presidenziale uno era, e quindi non aveva nome: il cittadino seguiva Potus, il presidente, o Flotus, la first lady, e lì sopra ci scriveva chi era di turno in quelle mansioni.
Crearono anche degli account “archived”, in modo che chi voleva leggere i tweet di Obama dopo la fine della sua presidenza non dovesse andarseli a cercare nell’account Potus che era diventato di Trump, ma sotto @Potus44. Sono ancora lì, «This is an archive of an Obama Administration account maintained by the National Archives and Records Administration (NARA)».
Era tre giorni e otto anni fa, e in tre giorni e otto anni l’umanità che sta sui social è riuscita a non capire un cazzo non dico della “Recherche” (che probabilmente non ha mai letto), non dico di “Topolino” (che avrà letto senza capirlo), non dico del manuale di istruzioni della friggitrice ad aria: l’umanità riesce a non capire un cazzo di come funzionino degli strumenti che usa tutti i giorni per molte ore al giorno.
Quello, e anche il saperlalunghismo, certo: c’entra non solo l’ottusità ma pure la smania di dire che vogliono fregarci ma noi abbiamo capito, di percepirci svegli, furbi, padroni del nostro tempo e della performance, mica cretini qualunque, macché. E quindi ieri mattina eccoli lì tutti pronti con un nuovo abuso di potere da denunziare (non oso immaginare quante telefonate siano arrivate al Gabibbo e a tutti i gabibbi in borghese dei programmi giornalistici, tutti chiamati a svelare il complotto dei poteri forti).
Quelli che seguivano Kamala Harris, per dire, quando si sono ritrovati in pagina i post di J.D. Vance mica si sono ricordati che l’account è legato al ruolo, mica si sono chiesti se potesse essere questo il meccanismo (intuibile anche allorché ignorato), mica si sono limitati a pigiare unfollow e tornare a preoccupazioni non dico più importanti ma almeno più esistenti.
No, loro sono corsi dai gabibbi di quartiere a denunziare il sopruso di Mark Zuckerberg, quello stronzo, che in cambio di due posti in prima fila da abbonato Rai all’insediamento di Trump, in cambio dei canapé a scrocco al ballo inaugurale, quel Mark si è prestato a fare il lavoro sporco, ed eccolo lì che ha dato ordine ai suoi impiegati di far aggiungere d’imperio il follow sugli account di Vance e Trump. A tutti gli iscritti a Instagram, ma specialmente agli italiani, ché da quelle parti hanno un debole per gli spaghetti al dente.
La cosa drammatica è che, poiché la totalità degli italiani troppo stolidi per capire perché gli apparissero in pagina i post del presidente o del vicepresidente, o perché ne risultassero follower pur essendo antitrumpiani, poiché la totalità di questi derelitti prima era evidentemente follower di Biden e (o) di Harris, cioè di due che governavano un paese in cui questi italiani derelitti neppure abitano, la cosa drammatica è che costoro probabilmente si percepiscono gente con uso di mondo, che ci tiene a informarsi, che ha uno sguardo oltre la siepe.
No, non è vero: la cosa davvero drammatica è un’altra; è che lo scandalo è figlio del loro voler seguire gente che conferma le loro idee e sussultare se si trovano in pagina un post non confermativo. Stanno sui social per annuire: c’è mai stato uno spreco maggiore di risorse? C’è un uso peggiore del proprio tempo e della propria bassissima soglia d’attenzione che leggere gente cui dare ragione?
Hasan Minhaj – quel comico che avevo citato mesi fa perché invece della superatissima divisione tra sinistra e destra ne aveva inventata una più accurata: insopportabili e psicotici – ha fatto un video postelettorale dicendo che il rettangolo della tristezza (cioè il telefono: è un gioco di parole su “Triangle of sadness”, film intelligentista d’un paio d’anni fa) ci fornisce una dose artificiale di rabbia a ogni notifica, friggendoci le sinapsi.
Litigherete coi vostri cari a ogni enormità che dirà Trump, e che verrà coperta dai canali informativi, i quali verranno insultati dai trumpiani, e a quel punto si romperanno amicizie e si rovineranno cene di famiglia. Il che è vero, ma manca un pezzo. Che è quella scena del funerale di Jimmy Carter in cui Barack Obama e Donald Trump chiacchierano e ridacchiano, e i derelitti che si vedono passare la scena sul telefono s’indignano come qualche giorno dopo s’indigneranno perché i post del nuovo presidente osano comparirgli sul telefono.
Perché il derelitto nella sua derelitta vita in cui prende sul serio chi vince e chi perde le elezioni, in cui pensa che qualcuno cambierà qualcosa, in cui tifa fortissimo perché in qualcosa deve pur credere e la squadra di calcio per cui tiene non vince da quand’era in terza elementare, quel derelitto lì non può sopportare che due adulti che per lavoro s’insultano poi non si azzannino alla giugulare se s’incontrano a un funerale o a una cena.
E tutto questo, dice Minhaj, si potrebbe risolvere, ma non si può. Qualche giorno fa Edoardo Camurri, commentando su Radio 3 non so quale uscita di questa paginetta, ha detto che essa paginetta e la di essa autrice sono caratterizzate da nostalgia del Novecento e totale sconcerto dell’assurdo presente. Aveva tantissima ragione.
Sono nostalgica d’un secolo in cui non avevamo il telefono in tasca e non ci toccava appassionarci a mille stronzate non appassionanti ogni giorno. E sconcertata, come Minhaj, dal fatto che non si possa star senza telefono perché nessun ristorante ha più il menu di carta, e senza un aggeggio che inquadri il qr code non si può ordinare. Ventunesimo secolo, perché ce l’hai con me?