Avvenire, 23 gennaio 2025
Tutta l’Italia è a rischio Pfas
Il quadro che emerge è di quelli che fanno rabbrividire: non esiste territorio nel nostro Paese che sia esente da contaminazione da Pfas (sostanze chimiche poli- e perfluoroalchiliche). A lanciare l’allarme è Greenpeace che ha presentato ieri i risultati di un’indagine effettuata tra il settembre e l’ottobre dello scorso anno in 235 comuni di tutte le Regioni e le province autonome. E da cui emerge che milioni di cittadini sono stati esposti negli anni a sostanze chimiche certificate “pericolose per la salute” dalla comunità scientifica, e quindi giudicate “non sicure” e “inaccettabili” in molte nazioni. Non solo europee. Questo accade nonostante l’Italia sia inciampata più volte contro i Pfas per non conoscerne i rischi: lo ha fatto nel Veneto – dove si è consumato uno dei più gravi casi di inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche al mondo – e in Piemonte, che ospita nell’alessandrino l’unica industria chimica italiana (la Solvay, oggi Syensqo) che produce ancora Pfas. Casi, quello veneto in primis, che hanno scomodato perfino l’Onu che dopo la visita del suo Special Rapporteur sui “diritti umani e sostanze tossiche” nel 2022, si è detta seriamente preoccupata per la popolazione. «Eppure il nostro governo resta a guardare inerte», denuncia l’associazione ambientalista, e gli italiani non hanno ancora diritto a screening sanitari né accesso ai dati relativi all’inquinamento dell’acqua potabile. In Italia, inoltre, non esiste a oggi una normativa nazionale che vieti o limiti l’utilizzo dei Pfas, mentre Europa e Stati Uniti viaggiano in senso diametralmente opposto.
Che cosa sono i Pfas
Nel linguaggio comune vengono chiamati “inquinanti eterni” perché non si degradano nell’ambiente. Ma restano. Per sempre. Del resto è proprio questa una delle proprietà ad aver reso i Pfas “attrattivi” per l’industria a partire dagli anni ’50, allo scopo, ad esempio, di rendere i prodotti industriali impermeabili ad acqua e grassi. Ma hanno anche un’altra caratteristica che li rafforza: si “accumulano” nelle acque, nell’aria, nei terreni, negli animali e perfino nelle persone. In un girone infernale che li rende “inevitabili” pur essendo fonte di possibili tumori, ipercolesterolomia, problemi di infertilità, disturbi del sistema immunitario, oltre che di apprendimento nei bambini. Tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità li ha dichiarati cancerogeni e l’Unione europea sta lavorando per la loro totale messa al bando.
“Acque senza veleni”: l’indagine di Greenpeace
«Dobbiamo tenerceli, insomma, ma non dobbiamo assolutamente produrne ancora», commenta Giuseppe Ungherese, responsabile Inquinamento di Greenpeace. Che si dice allarmata ma non stupita dagli esiti della sua nuova ricerca. Dopo aver lottato per anni al fianco dei cittadini veneti e piemontesi per vedere garantito il loro diritto, internazionalmente riconosciuto, «a vivere in un ambiente sano e pulito», l’associazione ha setacciato tutta l’Italia andando a cercare tracce di Pfas nelle fontanelle. E quello che ha trovato non è per niente rassicurante. Le analisi – condotte da un laboratorio certificato e indipendente su 260 campioni – infatti ne hanno scovato traccia nel 79% dei casi (4 su 5) con in testa il Nord del Paese, molto probabilmente per una più massiccia presenza di industrie. «Non c’è Regione non contaminata – continua Ungherese – escluso l’Abruzzo, in tutte le altre più della metà dei campioni sono risultati positivi». È il caso della Lombardia, a Milano – per esempio – i limiti Pfas superano quelli europei in tutti i prelievi, ma anche del Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Sardegna e Perugia (Umbria). Tra le molecole più diffuse il cancerogeno Pfoa (Bussoleno, in Val Susa vince il triste primato), seguito dal Tfa e dal “possibile cancerogeno” Pfos. Il Tfa è il composto più diffuso sul pianeta ma è allo stesso tempo ancora oggetto di approfondimenti scientifici. «La sua pericolosità – spiega il responsabile Inquinamento di Greenpeace – sta nel fatto che, a differenza degli altri, non può essere rimosso mediante i più comuni trattamenti di potabilizzazione». Che se effettuati in presenza di molecole Pfas di altro tipo, rischiano di fare da effetto detonatore rendendo l’acqua ancora più contaminata. L’indagine ne ha trovato traccia a Castellazzo di Bormida (AL), Ferrara, Novara. Ma anche in Sardegna.
La legislazione e l’inerzia dell’Italia
Attualmente in Italia i controlli sui Pfas nelle acque potabili sono per lo più inesistenti e non c’è una legge che ne vieti l’uso e la produzione. Solo tra un anno entrerà in vigore la direttiva europea 2020/2184 che impone dei limiti normativi che però non paiono sufficienti di fronte al progresso scientifico. Una questione non di poco conto se consideriamo che già pochi mesi dopo l’approvazione della norma Ue, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) considerava questi parametri inadeguati, come fatto recentemente dall’Agenzia per l’ambiente. Per questo motivo molte nazioni hanno agito in autonomia, imponendosi delle soglie più restrittive. È l’esempio della Francia o di cinque Stati europei – Danimarca, Germania, Svezia, Paesi Bassi e Norvegia – che insieme lavorano per bandire del tutto l’uso e la produzione di Pfas nel loro insieme. O ancora – se andiamo oltre l’Europa – degli Stati Uniti che hanno proposto un limite definito “storico” sia per il Pfoa che per il Pfos. «Non deve meravigliare quindi se dalla nostra ricerca emerge che gli italiani bevono acqua considerata non potabile in altri Paesi, nonostante dovremmo essere più “scottati” di altri e di fronte alle evidenze scientifiche», conclude Greenpeace. Che da tempo chiede al governo una legge per fermare i Pfas a favore di alternative più sicure. Con l’associazione, in una petizione, 136 mila cittadini