La Stampa, 23 gennaio 2025
Sogno Donald che bombarda l’Ariston
Su Sanremo e i corsi e ricorsi politici italiani ci sono due scuole di pensiero. C’è chi sostiene che il Festival li segua, e chi invece che addirittura li anticipi. Di sicuro, su quel che succede all’Ariston la politica pesa eccome, e non solo per le abituali raccomandazioni e sponsorizzazioni. E infatti nella marea di annunci, anticipazioni e anteprime che scandiscono come una via trucis l’attesa del Festival vero e proprio e ci fanno magari arrivare a Sanremo già stufi di Sanremo, quando è stato l’abituale momento dell’ascolto delle canzoni da parte di un gruppo di scelti giornalisti con relative pagelle, ci si è accorti che all’edizione 2025, terza dell’evo meloniano, mancherà soprattutto l’attualità. Più musica e meno parole; e nelle canzoni, più amore e meno società. «Meglio qualche ospite o qualche monologo sull’attualità in meno e più canzoni in gara», dichiara infatti Carlo Conti (in effetti, le canzoni sono 34, e per fortuna che si voleva asciugare il festivalone già ipertrofico di Amadeus). Nelle magnifiche (si fa per dire) 34 «rarissimi accenni diretti alla realtà che ci circonda – chiosa il conduttore – sarà anche un modo per fuggire da quanto di gravissimo accade attorno a no».Per carità: «Non vuol dire che non parleremo d’immigrazione o di guerra: magari lo faremo con gli ospiti», aggiunge l’Abbronzatissimo. Ma l’impressione è quella di un Festival che è stato disegnato disimpegnato, arma di distrazione di massa più distraente che mai. Oddìo, il monologo sanremese era ormai diventato un «genere» spettacolare a sé stante, il «pippone» nel gergo di quegli screanzati della Sala stampa, noiosetto anzichenò, di solito letto male sul gobbo da qualcuno che fa un altro mestiere e che non si capisce bene perché stia lì a distillarci moralismi prêt-à-penser o buoni sentimenti che, come il beige, si possono portare su tutto. Ma si sa che è così da sempre: accendi Rai1, ed è subito De Amicis.Tuttavia, il monologone stava alla serata come l’omelia alla messa (cantata): l’unico momento dove l’attualità e magari la polemica spettina quell’eterno ritorno del sempre uguale che è, insieme, la forza e la maledizione del Festival. E, diciamolo, era pure quasi sempre improntato a un moralismo wokista e politicamente corretto che farebbe prudere il dito di Trump sul bottone rosso del missile nucleare, e non è nemmeno più di moda in Italia. Quest’anno, lo si è capito, ce ne saranno meno, o forse nessuno. Sarà un Sanremo all’insegna del canta che ti passa, del massimo disimpegno possibile, del non disturbate la manovatrice, senza che fra sorrisi, canzoni, fiori e guarda-come-si-è- conciata-questa irrompa un mondo esterno che attualmente di sorrisi sembra dispensarne pochissimi (e tuttavia, confessiamolo: Donald che bombarda l’Ariston è più un sogno che un incubo)