La Stampa, 23 gennaio 2025
Reportage da El Paso
Il varco numero 40 era sempre aperto sino a qualche giorno fa, una sorta di porta di accesso a una nuova vita per i migranti che, dopo mesi di cammino, varcavano la frontiera senza colpo ferire. Così tanti quelli che lo hanno attraversato al punto che le autorità hanno dovuto piazzare su quel tratto della “Loop 375” (una sorta di tangenziale) un grande pannello elettronico con la scritta luminosa “Watch for unexpected pedestrians” (Attenzione, passaggio improvviso di pedoni). Quell’avviso ora non sembra aver più nessun significato, il varco 40 è sigillato, al di là ci sono alcune jeep della Us Border Patrol (la polizia di frontiera) che sorvegliano notte e giorno questo tratto di muro di frontiera coronato da filo spinato, dopo di loro il Rio Grande, quindi il terreno arido sul quale si erge la grande «X» rossa a simboleggiare il Messico. Salutata sino a qualche giorno fa dai migranti con un «a non rivederci», ma sulla quale oggi si iniziano a infrangere le speranze e i sogni di chi sogna la “terra promessa”.La desolazione della porta chiusa trova una eco nelle strade semivuote e nei pannelli di legno che sprangano porte e finestre degli “shelter”, i rifugi per migranti che hanno liquidato gli ospiti e hanno chiuso i battenti, a tempo indeterminato. È l’effetto della stretta avviata da Donald Trump lunedì scorso con la firma di una serie di decreti esecutivi dedicati alla lotta contro l’immigrazione clandestina negli Stati Uniti, come promesso dal 47° presidente americano già in campagna elettorale. Al punto tale che i suoi effetti sono iniziati settimane prima del suo insediamento alla Casa Bianca, già dal 5 novembre scorso, giorno della trionfo di Palm Beach. «Qui a Downtown era pieno di gente che camminava su e giù, la maggior parte venezuelani, ma anche cubani, nicaraguensi, salvadoregni, riempivano le strade ognuno a modo suo, poi la notte si ritiravano nei rifugi o dormivano per strada. Ora non c’è più nessuno, si nascondono», racconta Carlos cittadino “regolare” di El Paso anche lui di origini ispaniche, socio di una cooperativa di taxi. Le retate annunciate dallo zar del confine Tom Homan, che ieri hanno portato all’arresto di almeno 308 immigrati illegali in tutto il Paese, hanno innescato la grande fuga. Per le strade sono rimasti per lo più i disperati, chi fa uso di droga o abuso di alcol, che si aggirano tra le logore tende da campo piazzate ai margini delle strade, assieme ai disgraziati che soffrono di disturbi di ogni specie. O qualche giovane spavaldo che, condizionato dalla sua incoscienza, gioca a fare il capetto di zona, salvo poi dileguarsi al passaggio di un lampeggiante, prigioniero di quegli occhi spaventati che ne rivelano tutta la sua gioventù bruciata.Alcuni migranti si nascondono negli shelter, col cappello calato sul viso, non parlano e inveiscono ad un obiettivo puntato: «Il giornalista è una spia delle guardie». Altri sono scappati. Come quelli che ha accompagnato Carlos nell’ultimo mese a San Antonio. Sette ore di viaggio al limite della legalità per raggiungere il grande rifugio della “perla del Texas” prima che sia troppo tardi, o per agganciare qualche conoscenza che possa poi agevolare un ulteriore slancio verso Nord. «Nell’ultimo mese ho fatto venti volte il tragitto, andata e ritorno, ho portato uomini, donne, bambini, anziani, dividono le spese di viaggio e quando non arrivano alla somma necessaria chiudo un occhio, cosa devo fare del resto». Hanno paura? «Hanno più paura a rimanere in Messico perché possono essere rapiti, taglieggiati, derubati, uccisi, quando arrivano qui si sentono sollevati». E ora? «Ora un po’ meno».Davanti al porto di ingresso per veicoli di Downtown, uno dei pochi rimasti ancora aperti, la fila di vetture è a perdita d’occhio, buca l’orizzonte di Ciudad Juàrez. «I controlli dalla parte messicana si sono irrigiditi, l’attesa può durare ore» racconta Luz che con la figlia ha appena attraversato la frontiera. Lei il permesso per gli Usa ce l’ha, tanti altri no, ma ci provano lo stesso, come in un ultimo estremo afflato prima del silenzio sinfonico diretto dall’arrivo del primo contingente di almeno 1.500 militari a sigillo della dottrina Trump-Homan.La quiete prima della tempesta, o viceversa, a seconda del prisma dal quale si voglia leggere quello che accade al El Paso, dove la densità umana si sta velocemente diradando. «Qui ospitiamo solo donne, americane o non, con alle spalle disagi sociali, violenze domestiche, abusi, perdita di parenti stretti», racconta Jackie, una delle volontarie del rifugio “Villa Maria”. «Possiamo accoglierne oltre venti, ora sono una decina», dice senza celare un cenno di desolazione, mentre alle sue spalle si affaccia una delle ospiti, salvo ritrarsi irrigidita alla nostra vista. L’uomo bianco crea qualche timore ultimamente nel microcosmo di El Paso dove tutto è declinato in “Latinos”. E dove per la prima volta la polizia di frontiera ha fermato un’auto con due ispaniche a bordo, senza documenti: arrestate. «Non succedeva da tantissimo tempo qui, le cose stanno davvero cambiando», sottolinea Carlos mentre fa rotta verso “Rescue Mission of El Paso”, il centro di accoglienza più strutturato ed efficiente della città, tra quelli ancora operativi. «Ospitiamo attualmente 120 senzatetto e 80 migranti, soprattutto famiglie – dice Cheryl Braun, coordinatrice del centro -. Sovente rimango bloccate subito dopo aver attraversato il confine perché tradite da sponsor senza scrupoli o da inviti di familiari che non si sono mai fatti vivi. Alle spalle della volontaria, in lontananza, alcuni bambini corrono dietro a un pallone arancione, tipo “Super Santos” di novecentesca memoria. Cheryl spiega che d’ora in avanti potrebbe cambiare il modo di aiutare, non la volontà di farlo. Teme che assisterete a raid e separazioni? La coordinatrice piega la testa, accenna un sorriso, alza le spalle: «Operiamo alla luce del sole, dinanzi all’onestà non c’è nulla da temere».